(Cristina Terribili)

Totò, in una celebre poesia, paragona la morte a una livella, descrivendola come l’unico evento che accomuna tutti, che rende tutti uguali: il netturbino e il generale, l’umile e il nobile, il povero ed il ricco…. L’italiano e lo straniero, aggiungo io, sempre restando nella metafora della poesia.

La morte, inoltre, è tra le poche cose che dovrebbe restituire dignità, che dovrebbe infondere rispetto, che in passato faceva togliere il cappello e segnarsi con il segno della croce. La morte permette di conoscere la vita di chi ha lasciato questo mondo, di conoscerne la storia.

Recentemente, mi sono imbattuta, come sicuramente molti altri, nella storia di Pham Thi Trà My, una ragazza vietnamita, di 26 anni, deceduta in un tir che l’avrebbe dovuta portare, insieme a tanti altri clandestini, nel Regno Unito.

Conosciamo la sua storia perché, prima di morire, Pham invia un ultimo messaggio alla madre: “Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare”.

Non avremmo mai avuto modo di conoscere Pham, se la sua storia non avesse avuto un esito tanto drammatico. Un epilogo che ci permette di riflettere sul chi consideriamo invasore, lontano e diverso da noi, e attraverso la morte, si palesa in tutta la sua straordinaria umanità.

Pham è una figlia che ama i suoi genitori e ha una responsabilità, quella di aiutare sé e la sua famiglia a sperare in un futuro migliore. Pham ha delle possibilità, delle capacità, lavora, per affrontare il viaggio dal Vietnam alla Gran Bretagna ha pagato 34mila euro.

Pham è forte, per questo è lei ad affrontare un viaggio tanto lungo e difficile; si informa, ma le vengono date false rassicurazioni, Pham ha bisogno di aria. Ma l’aria, nella cella frigorifera del tir, non c’è. Insieme a lei muoiono altre 39 persone, la maggior parte viene dal Vietnam e dalla Cina, molti sono giovanissimi, come ci raccontano i genitori che, grazie al messaggio di Pham, hanno saputo della tragedia ed hanno capito quale sorte fosse toccata ai loro cari.

Se la morte di una persona giovane ci appare sempre ingiusta, quella di Pham diventa veramente beffarda.

Pham avrebbe potuto avere le risorse economiche (perché se le era guadagnate) non solo per fare comodamente il viaggio in aereo ma anche per prendere regolarmente in affitto un appartamento e cercare, esattamente come tanti nostri “cervelli in fuga”, un lavoro che le avrebbe consentito di inviare dei soldi a casa e provvedere alla sua famiglia.

Avrebbe dovuto accedere ad un diritto che, da chi impone barriere e divieti, viene negato e costringe a scelte disperate, che obbliga a diventare carne da macello alla mercé di ignobili trafficanti di esseri umani.

E se una vita deve avere un senso, oppure se ad ogni morte dobbiamo dare un senso, forse la morte di Pham, come la morte della madre africana che ha tenuto abbracciato il suo bambino nella loro discesa in fondo al mare Mediterraneo, così come tante altre morti di uomini e donne che sognano un futuro migliore, dovrebbero farci gridare giustizia, per chi ha una speranza, ha forza e coraggio e risorse per costruirsi una vita diversa.

Se i soldi che ognuna di queste famiglie investe, per pagare i trafficanti di uomini, fossero disponibili per aprire attività, per spostarsi agevolmente, per intraprendere degli studi, non solo avremmo un’economia legale, ma avremmo anche tante persone di qualità tra di noi. Questa, e tante altri morti, hanno tutte il sapore della sconfitta della nostra civiltà.