(Fabrizio Dassano)

Molti anni fa ero impegnato in una serie di innumerevoli bagni e dormite sotto l’ombrellone in vacanza nel fantastico Salento e capitai nella cittadina di Maruggio, in provincia di Taranto. Nella piazza era stata apposta nel 1997 una lapide a cura della locale associazione “Terra Murata”. Raffigura Giovan Battista Martena, “valoroso capitano di artiglieria del regno di Napoli, nato a Maruggio il 28 agosto 1609”. Sotto un bassorilievo in bronzo ne raffigura il busto e le fattezze, capelli molto folti e lunghi sulle spalle baffoni e mosca su un volto molto spagnolesco e un ampio colletto secentesco. Or bene: più sotto ancora si specifica che era studioso ed esperto di armi da fuoco e nel 1676, all’età di 66 anni, pubblicava in Napoli il “Flagello Militare” per il libraio Troisi, che aveva sede davanti alla attuale Chiesa di Santa Maria Incoronatella nella Pietà dei Turchini. Il libro era il suo trattato di arte militare divenuto famoso in Europa per la chiarezza d’esposizione scritto sulla base della sua esperienza. Poi l’epigrafe ricorda il suo “lavoro” a danno dei francesi nelle isole Lerins e negli assedi di Torino, Asti, Tortona e Portolongone.

A quel punto la storia si fa interessante: in quegli anni anche il Canavese era sconvolto dalla “Guerra civile” secondo il nostro punto di vista, che si inseriva però nel più ampio scontro tra Francia e Spagna e che si inserisce a sua volta nel più ampio conflitto che va sotto il nome di “Guerra dei Trent’anni” iniziata con la frattura tra mondo cattolico e protestante. Questo sconvolgimento d’Europa, ispirò Manzoni per i “Promessi Sposi”. Anche lo scrittore francese Edmond Rostand riprese i testi dello scrittore, filosofo, drammaturgo e soldato francese del ‘600, Savinien Cyrano de Bergerac, e ne narrò le gesta e le spacconate di guerra nella commedia “Cyrano de Bergerac” nel 1897.

Ma torniamo al Martena e alle sue personali gesta pirotecniche canavesane descritte nel II capitolo del suo libro dal sottotitolo “…il quale tratta de’ petardi con il loro ordine, e modo di adoprarli nell’occasioni di sopraprendere Castelli, Città & Ville”. In buona sostanza il Martena prescriveva di proteggere gli accessi alla città anche in caso di solo sospetto di guerra con dei terrapieni sorvegliati per evitare le scorrerie dei soldati, altrimenti poteva succedere come al non meglio identificato castello di Nò al confine di Asti sul Tanaro preso dagli spagnoli nel 1637, con cui Martena militò nel Tercios di Napoli.

Un solo colpo di grosso petardo ben piazzato fece saltare i cardini del portone. La cosa andò avanti per un decennio di guerra fino al 1647, come ci spiega il Martena: a Torino il suo compagno petardiere Paduano di Roggiero spalancò con quel sistema la porta della cittadella per le truppe del Principe Tommaso di Savoia, del marchese di Laganes, governatore dello Stato di Milano, traendone molta gloria costringendo Madama Reale a trincerarsi in città. Dopo i fatti di Cherasco che non andarono bene per gli spagnoli a causa del Turenne, in cui ci rimise la vita il capitano dei petardieri Carlo Antonio Sala e due aiutanti, Martena partecipò alle gesta al castello di Chiaverano (Ciavarano, nel testo): quando andammo a soccorrere Ivrea, dopo la battaglia campale del 24 aprile 1641 che durò “hore venti infino ad hore ventiquattro, essendosi li francesi ritirati nelli loro attacchi abbandonati, persero molta gente e il signor marchese di Laganes, a quell’ora inviò un nerbo di cavalleria e fanteria a sorprendere il castello di Chiaverano lontano un tiro di cannone da Ivrea, acciò potessimo di là soccorrere il signor mastro di campo Pietro Gonzales del Vaglie, dove rimasero morti due petardieri e non fecero nulla, atteso le porte erano terrapienate, ma nondimeno furono li francesi forzati ad abbandonare la piazza d’Ivrea.”

Il petardo dell’epoca era un vaso in metallo o legno rinforzato, grosso come un secchio, colmo di polvere pirica e tappato saldamente, da cui fuoriusciva la miccia per l’innesco. I petardi da appendere ai cardini delle porte avevano dei ganci di ferro. L’istruzione del Martena diceva di non affidarlo a semplici soldati ma almeno ad un ufficiale e a tre soldati fidati che lo dovevano portare con molta diligenza al suo obbiettivo su un tavolo con quattro manici, come una barella.

Contemporaneamente gli archibugieri del “tercio” dovevano tenere un fuoco d’archibugio sostenuto sui difensori della porta perché non colpissero i petardieri. Le mura di Chiaverano erano però state rinforzate dai terrapieni e quindi i petardieri spagnoli con il Martena non erano potuti intervenire sulle porte. Emanuele Tesauro poeta, filosofo e retore al servizio sabaudo, descrisse la battaglia di Ivrea nel libro “Ivrea assediata et liberata l’anno 1641”.

Già nel novembre cattivi segni presagivano la malasorte eporediese: casi di parti mostruosi e apparizioni di “ferine sembianze in corpi umani, stillò una spessa pioggia di sangue nei suoi giardini” e la Dora esondò cercandosi un nuovo letto. S’aggiunse anche un altro fatal presagio per la morte dell’Infanta Caterina a Biella per “eccesso di calor di pietà” che non le lasciò sentire gli eccessivi freddi della sacra solitudine d’Oropa (!) Comunque sia quando le truppe francesi iniziarono a muovere verso Ivrea e la città poteva contare su 1800 eporediesi atti alle armi e 300 svizzeri mercenari del principe Tommaso di Savoia, Don Silvio di Savoia da Biella portò un gran numero d’armati che dispose alla difesa di Porta Vercelli.

La città fu assediata dai francesi al comando del conte Enrico d’Harcourt, che accolse il Mazzarino al campo d’assedio il 19 aprile. La città sostenne l’assedio dal 12 aprile al 18 maggio 1641, quando fu liberata dai “tercios” spagnoli di Napoli, Milano e Alemagna e con il principe Tommaso Francesco di Savoia con un corpo di 4.500 cavalli, attaccando il cordone d’assedio a Burolo e sfidando i francesi in una sanguinosa battaglia campale a Bollengo il 24 aprile dagli esiti incerti. Ma avendo il soccorso continuo dallo Stato di Milano, Ivrea resistette fino alla notte del 17 maggio, quando i francesi lasciarono la città e le loro posizioni e al mattino del 18 erano tutti fuggiti.

Tutto questo era successo perché con la morte di Vittorio Amedeo I nel 1637, suo figlio Francesco Giacinto, di appena cinque anni, gli succedette al trono sotto la reggenza della vedova, Maria Cristina di Borbone di Francia, sorella di Luigi XIII. Cristina aveva tentato di governare il Piemonte in maniera indipendente dalla Spagna e anche dal fratello. Concesse invece l’amministrazione al proprio amante, Filippo di Savoia, principe di Agliè. I fratelli di quest’ultimo Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano e Maurizio, al servizio della Spagna, temendo di essere esclusi dalla successione, mossero guerra a Cristina e alle truppe francesi, appoggiati dagli spagnoli, malgrado i tentativi di Richelieu di comprare Tommaso. Nell’autunno del 1641, i negoziati di Tommaso con Cristina e con i francesi vennero ripresi, e Tommaso dovette accettare la reggenza di Cristina per il figlio Carlo Emanuele. Tommaso, forte dell’alleanza spagnola aveva preteso da Cristina il controllo personale di due delle maggiori piazzeforti del Piemonte, quella di Biella e quella di Ivrea per l’intera durata della reggenza di Cristina.

Tommaso gradatamente si distaccò anche dall’alleanza con gli spagnoli. La questione si chiuse con i trattati conclusi il 14 giugno 1642 a Torino. Nel 1648 il principe Carlo Emanuele ebbe la maggiore età per governare e il 20 giugno al castello di Ivrea Cristina di Francia, come narra il Benvenuti, l’energica Madama Reale, depose ufficialmente la reggenza a favore del figlio e proprio a Ivrea Carlo Emanuele II di Savoia la ottenne.

Tra innumerevoli feste e grandi spari dell’artiglieria della città. Anche se di fatto continuò a governare la madre fino alla morte.