(Fabrizio Dassano)

Sono andato a prendermi la terza dose di vaccino, rientrando in una categoria dell’obbligo. Sono andato in un paese qui vicino, in un centro vaccinale ricavato dentro una struttura ricreativa per anziani, una costruzione stile littorio. Parcheggio e mi avvicino alla coda che si è formata davanti all’ingresso.

C’è un giovane della CRI che accoglie e spiega. Tutti sembrano timorosi a varcare la soglia. C’è una signora anziana che ha paura. Il suo paziente accompagnatore cerca di calmarla. Dice che se sta male non vuole andare all’ospedale. Interviene il giovane nella sua tuta arancione. Gli dice che se dovesse stare male, loro sono pronti ad intervenire e se il medico decide, la porteranno all’ospedale. Lei ripete come un mantra che all’ospedale non ci va.

Entriamo nel salone e ci accoglie un cartello: “Benvenuti al centro ricreativo anziani”. È un salone teatrale, sullo sfondo c’è un palcoscenico, il palco è celato da un sipario rosso scuro. Già la cosa preoccupante è che vedo questa coda entrare e nessuno uscire, guardo fuori dalla finestra e vedo la montagna incorniciata dal cielo blu, dall’alto, sornione osservano le case di Andrate con le loro orbite scure. Penso all’ora, quell’aria che esce dalle profondità delle montagne, aria tiepida d’inverno e fresca d’estate che crea quel microclima costante dentro i balmetti. Il teatro è pieno di sedie di plastica bianche e la sala è divisa in due parti da tre gazebo in cui si vaccina e si è ricevuti dal medico.

Ci sono dei volontari e due alpini anziani ci smistano. Osservo il loro cappello piumato, uno ha piantati sul cappello gli stelloni che portava un tempo sul bavero e una data di lettere dorate. In realtà aspetto poco. Osservo gli occhi della gente sopra le mascherine, è una situazione che ricordo solo di aver provato alla visita militare.

Ci danno un tesserino con un numero sopra. È il mio turno, poche domande del medico, una donna del sud essenziale, sbrigativa. La signora che non in nessun caso sarebbe voluta andare all’ospedale passa prima di me ed è finalmente tranquilla. Passo io e ci resto pochi istanti, firmo il foglio, l’infermiera mi pizzica la pelle del braccio, un lieve bruciore e tutto fatto. Attendo un quarto d’ora nell’altra metà della sala: qui le sedie sono messe a platea e fissiamo tutti il palcoscenico dal sipario chiuso. Si sa che non c’è nessun spettacolo in programma.

Poi, dopo aver controllato l’ora, dopo un quarto d’ora sono fuori. Le montagne sono di colore marrone inverno. Il cielo è blu e il sole scende allungando le ombre. Salgo in macchina e me ne vado.

Non sono morto nemmeno questa volta.