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Si sa quale impatto ha sul mondo la prima parola di un nuovo Papa quando si affaccia per la prima volta dalla Loggia di San Pietro dopo l’elezione. Per Francesco fu “buonasera”, con la quale venne identificato e interpretato il suo pontificato. Per Papa Leone la prima parola è stata “pace”.
Da quel momento non c’è incontro pubblico, omelia o discorso ufficiale in cui il Pontefice non la evochi. E non si tratta di vezzo retorico, appello generico, ritornello abitudinario, ma di una scelta deliberata, strategica, profondamente teologica e umana, una missione.
Quando Papa Leone XIV pronuncia la parola pace, lo fa con una consapevolezza che va ben oltre la nostra. Al vertice della Chiesa interconnessa al mondo, Papa Leone ha accesso a informazioni, rapporti diplomatici, analisi geopolitiche, segnali provenienti da ogni angolo del pianeta; la sua visione è ampia, globale, profonda. E alla luce di ciò, la sua insistenza sulla pace non è solo un richiamo spirituale, ma anche una precisa direzione politica, culturale e antropologica.
Egli sa – forse più di chiunque altro – quanto il mondo sia vicino a un punto di rottura. E noi dobbiamo credergli, per fare la nostra parte. I conflitti regionali, che sembrano locali, sono in realtà interconnessi; dietro ognuno di essi si muovono interessi economici, traffici di armi, manipolazioni informative, e la proliferazione di questi focolai rischia di generare una spirale che sfugge al controllo anche delle grandi potenze.
La pace, quindi, diventa l’unico antidoto realistico a una crisi sistemica che potrebbe degenerare in guerre globali o disastri umanitari irreversibili. Per Papa Leone, invocare la pace è un modo per rimettere la persona al centro, è chiedere di chiudere con le guerre, è denunciare sistemi che opprimono i poveri, distruggono l’ambiente, marginalizzano i più fragili, alimentano odio e polarizzazione, spingono milioni di persone alla fuga, trasformano bambini in soldati, svuotano intere Nazioni della loro gioventù.
La cultura della pace non si improvvisa: va seminata nelle scuole, nella comunicazione, nelle famiglie, nelle parrocchie, nei luoghi di lavoro per proteggere il futuro. È un’opera lunga, lenta, che chiede coerenza. Non possiamo più permetterci il lusso dell’ambiguità; o siamo operatori di pace, o diventiamo complici della violenza.