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Viviamo nel culto del… “prima”. Non del meglio, del vero, del fondato… Del prima. È una fame d’anticipo che consuma tutto: rigore, profondità, responsabilità. Lo vediamo sui social, dove l’urgenza di farsi notare – in qualunque modo – partorisce imprese sconsiderate, spesso grottesche, a volte tragiche. Ma la stessa dinamica abita anche ambienti apparentemente più seri, più sobri, più “professionali”.
Capita anche nel giornalismo, quando sembra inghiottito da questa corsa continua: chi arriva per primo, buca lo schermo; chi esita, perde. E così accade che pur di dire qualcosa in più, vi siano considerazioni strampalate, giudizi traballanti ma formalmente perfetti, frasi cesellate che suonano bene ma non stanno in piedi. Il lessico è elegante, la firma riconoscibile, l’inquadratura giusta – ma la sostanza? A volte manca del tutto. Altre, peggio: è fake.
Ma così ci si brucia. Le fonti sono sempre importanti. Per fare analisi ci vuole competenza, altrimenti si gioca con gli umori collettivi, si polarizza, si cavalca. Per trenta secondi d’attenzione in più. Trenta secondi prima degli altri. Eppure la conseguenza è sottile e diffusa: da lettori, ce ne accorgiamo quando l’argomento ci appartiene, quando conosciamo i fatti, i nomi, i contesti. In quei momenti, sentiamo lo scarto tra verità e spettacolo. Ma per la restante, vastissima fetta di informazione, semplicemente assorbiamo. Digeriamo questa competizione come fosse notizia certa. E sopra ci costruiamo opinioni, giudizi, identità.
È un gioco pericoloso, perché forma – o deforma – il nostro sguardo. Plasmiamo la coscienza pubblica a partire da una narrazione seducente ma superficiale. Non andiamo più a fondo, non tocchiamo le radici. Ci nutriamo d’impressioni.
Alla radice, c’è spesso ciò che René Girard chiamava “desiderio mimetico”: volere ciò che vediamo voluto dagli altri. Un meccanismo profondo, umano, persino necessario alla crescita. Ma se lasciato senza coscienza, può prendere derive tutt’altro che felici. Fino a portarci a desiderare, affannosamente, qualcosa che non è davvero nostro. Solo per arrivarci trenta secondi prima.