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Viviamo tempi strani, di omologazione, in cui tutto ciò che è “nostro” e appartiene al nostro ambiente, sembra spesso non meritare né rispetto né difesa, diventa oggetto di critiche rapide, superficiali, sovente ingiustificate.

Come se riconoscere valore a ciò che ci appartiene fosse un segno di debolezza, o di provincialismo. Eppure, è proprio da lì che bisogna ripartire: dall’amore per ciò che ci appartiene a fronte di una forma di disamore che oggi si insinua come una rassegnazione amara.

Sono numerosi gli esperti che (credono) di vedere ciò che manca, ma sono ciechi (e sbilanciati) di fronte a ciò che c’è. Eppure, ogni luogo, ogni comunità, ogni ambiente ha qualcosa di profondamente suo, e profondamente nostro. Un patrimonio di esperienze, storie, persone, sacrifici, tentativi.

Tutto questo ha bisogno di amore per essere protetto, alimentato, rilanciato. Anche quando è fragile. Anche quando non è perfetto. Non amore cieco o retorico, ma amore attivo: che osserva, comprende, partecipa, costruisce. Criticare è facile. Amare è un lavoro. Credere in ciò che ci appartiene è una missione.

Riscoprire il senso dell’appartenenza, non come chiusura, ma come radice è un dovere. Senza amore per ciò che ci rappresenta, perdiamo un pezzo della nostra identità. Chi non ama le proprie cose finisce per non sentirsi parte di nulla. E chi non appartiene a nulla, spesso, smette di costruire, di credere, di lottare.

Credere che ciò che ci appartiene meriti amore è un atto di coraggio. In un tempo in cui è di moda disprezzare, lamentarsi, allontanarsi, scegliere di amare è una forma di resistenza. È scegliere di appartenere. È scegliere di non arrendersi. Custodire ciò che ci appartiene e ci è vicino è il primo passo per comprendere il valore di tutto ciò che è lontano.