Nella foto Pietro Bario
L’ambiente metallurgico dell’area canavesana ha sempre avuto il suo fulcro nel massiccio sistema minerario presente in Valchiusella.
La “Description minerarologique des montagnes du Canavois” di Carlo Antonio Galleani Napione del 1785, conservata presso la prestigiosa Accademia delle Scienze di Torino ci restituisce perfettamente il polso della situazione.
L’analisi di Galleani Napione principia da Brosso, dove egli fa una cruda analisi del sito: “Incontriamo gallerie per lo sfruttamento minerario del ferro quasi ad ogni passo. I lavoratori hanno ciascuno il proprio posto di lavoro ma talvolta agiscono anche negli scavi dove l’ingresso è comune. Il che significa che, lavorando in questo modo, senza alcuna regola, si formano nella montagna dei vuoti immensi che possono provocare di giorno in giorno qualche crollo, come è accaduto più di una volta”.
Un’altra rilevante indicazione sulle miniere di ferro brossesi ci è fornita da un’ingiunzione del 1655, rogata dal notaio Stefano Biava di Traversella, nella quale si imponeva ai cavatori di consegnare una certa quantità di minerale a Sebastiano Aritio (il cognome si evolverà poi in Arizio) di Alice Superiore che era coimpresario e controllore delle fortificazioni.
In quello stesso anno vi erano a Brosso diversi crosi: “delle Oselle”, “della Pesina”, “di Valcava” e “delli Allemagn” e quest’ultimo avvalora la supposizione della presenza di lavoratori tedeschi nell’area.
In epoca successiva, nel 1726, troviamo i crosi “del Vogr”, “del Forgio” e “della Cagna”. Queste ricerche condotte da Marco Cima ci portano a conoscere che al bacino del torrente Assa si cavava l’ematite che il Galleani Napione denominava “eisemann”.
A non molti chilometri di distanza, nel corso del Medioevo, si aggiunse in Valle l’attività estrattiva di Traversella e ce ne parlò sempre il Galleani Napione: “Le escavazioni della mina di ferro grigio, chiamata mina di Traversella, sono a ovest della montagna. Vi si trae in grande abbondanza un ferro di assai buona qualità” .
Accanto a questi siti principali, ve ne furono altri apprezzabili nella vicina Valle Orco, ma questi ebbero vita più breve, poiché trovandosi a quote elevate furono abbandonati già a partire dal XVIII secolo.
La tecnica del basso fuoco, sviluppata a Brosso e appunto denominata “alla brossasca” fu la chiave della metallurgia canavesana per molto tempo e i mastri brossesi la esportarono in Toscana e anche in altri luoghi. Lungo il corso del torrente Assa (che scorre tra Brosso e Calea), uno studio condotto nel 1981 ha portato al rilevamento di oltre quaranta strutture lavorative riconducibili a quindici siti i quali costituiscono le vestigia del complesso produttivo bossese-lessolese che per secoli creò masselli di ferro, venduti nelle fucine di Alice Superiore.
Tra le varie fucine alicesi, merita una menzione la Fucina Marra, nella quale operò per molto tempo un mastro ferraio di Vico Canavese: Pero dël Gat, al secolo Pietro Bario.
Pietro, unico figlio maschio del contadino Stefano Bario, aveva tre sorelle e nacque a Vico Canavese il 18 ottobre 1880. Egli iniziò ben presto la sua attività di lavorazione del ferro, divenendo a più riprese dipendente di varie fucine valligiane e svolgendo una lunga attività da Marra, ma operando anche presso il Regio Arsenale Militare di Torino negli anni del Primo Conflitto Mondiale, risiedendo con la moglie Leonilda Cavalla e con i primi figli già nati all’epoca, in un appartamento di via Bologna. Nel 1917 la moglie, per timore che i due figli maggiori Stefano e Sergio potessero essere contaminati da alcune compagnie poco edificanti – all’epoca era molto diffuso il brigantaggio e lo spaccio di armi e materie prime per i fronti militari – decise di ritornare a Vico con i ragazzi e la figlia Maria e giunta nuovamente al paesello diede alla luce un altro figlio, Remo.
Negli anni successivi la coppia ebbe altra prole per un totale di undici figli, di cui quattro morti in fasce a causa delle varie malattie del periodo.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale anche Pietro ritornò a Vico mettendosi a servizio di vari artigiani, ma le sue doti e la necessità di un guadagno maggiore lo spinsero, nel 1924, a portare la sua opera per l’erezione della centrale idroelettrica di Covalou, presso Antey Saint Andrè, nella bassa Valtournanche. La sua permanenza nella zona durò fino al 1934, per poi ritornare definitivamente in Valchiusella, prima ad Alice Superiore e poi nella nativa Vico. Logorato da una malattia professionale, si spense a Vico il 4 aprile 1953.
Una poetica descrizione di quest’uomo capace, ce la propone lo scrittore Bernardo Natalino Bovis nel libro “Una valle per viverci” dove egli si esprime così: “Pero dël gat” di mestiere fabbroferraio, aveva il volto scurito dal lavoro in cui si aprivano due occhi d’un tenero azzurro, capaci d’un riso fanciullesco, ad onta della sua età ormai matura”.
Il racconto di Bovis prosegue col dire che Pietro si fermava sempre a parlare con lui, all’epoca scolaretto, e che un giorno gli regalò dei magnifici porcini appena raccolti, che il bambino portò a casa per far cucinare alla mamma. Una prelibatezza e un gesto nobile se si pensa che in quegli anni – ci troviamo intorno al 1938 – Pietro risiedeva a Vico e lavorava da Marra ad Alice percorrendo ogni giorno sei chilometri all’andata e sei al ritorno a piedi ed aveva un misero paniere nel quale c’erano a volte tre fichi secchi e poco altro per affrontare la dura giornata lavorativa.
Di lui rimangono parecchi lavori, tra cui delle cancellate e piccoli manufatti, tra i quali i famosi chiodi a uncino, specialità delle fucine alicesi, e alcuni attrezzi da cucina.