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Siamo un popolo meraviglioso. Creativo, appassionato, geniale. C’è un tratto che ci unisce più del calcio, più della cucina della nonna, più del meteo cangiante: non siamo mai contenti. Di alcunché. Mai. Lo sappiamo e lo diciamo come fosse una medaglia: “io sono uno che non si accontenta mai“. Che, tradotto, significa: qualunque cosa succeda, troverò un motivo per brontolare. Siamo diventati esperti mondiali nel trovare il pelo nell’uovo, e poi lamentarci che l’uovo non è biologico.

Siamo passati dal “lamentarci al bar” al brontolare professionale h24 sui social, dove il mugugno è pubblico, altisonante, talvolta poetico. Postiamo indignazione come si posterebbe un piatto prelibato, arrabbiato al punto giusto, con due hashtag di protesta e una spruzzata di sarcasmo. Perfino quando si realizza ciò che chiedevamo, siamo infastiditi dal modo in cui è avvenuto. Il punto è che abbiamo trasformato lo scontento in stile di vita. Come se essere contenti significasse “accontentarsi”, che ormai suona come una colpa. Come se sorridere fosse da ingenui, e lamentarsi da lucidi osservatori della decadenza del mondo.

Non è che vada tutto bene. Ma se nulla va mai bene, se ogni cosa è sempre insufficiente, imperfetta, “da rifare daccapo”… forse che il problema venga da dentro? L’ironia tragica è che viviamo con più comodità che mai, cose che i nostri nonni nemmeno sognavano. Ma ci sentiamo più frustrati, più nervosi, più arrabbiati. Forse perché la gratitudine è passata di moda. E la critica – sterile, rabbiosa, compulsiva – è diventata la nuova spiritualità laica: una religione del “sì, ma…” da club esclusivo del “non va mai bene nulla” e del “mai abbastanza”.

Come si esce da questa spirale di lamentazioni professionali? (Forse) non si esce, allora ci si equipaggia. Facciamone un’arte. Apriamo un’accademia. Istituiamo la Giornata Mondiale del Lamento Coordinato, con cori da stadio: “che caldo fa – sì ma poi pioverà!”. Oppure: “voglio cambiare – ma solo se non cambia nulla!”. La verità è che ci lamentiamo perché ci piace. È come il caffè amaro: ci storce la faccia, ma ci sveglia. E allora lamentiamoci pure. Ma, almeno, facciamolo bene. Con stile. Con ironia. E magari, ogni tanto, con il dubbio che il problema… non sia sempre là fuori.