L’apertura di questo brano evangelico affascina con l’affermazione: “Non temere, piccolo gregge”. Un’espressione rassicurante che ci dice che la storia è retta da Dio stesso. Luca aveva utilizzato per la prima volta l’espressione “non temere” con Zaccaria nel Tempio, come per dire a questo sacerdote: “non sei tu quello che disponi delle cose e delle situazioni”. Ora l’espressione che esorta a non aver paura viene offerta ai discepoli – e quindi a tutti noi – per rassicurarci il suo sostegno.
Gesù ha la consapevolezza che la proposta cristiana non attecchisce in maniera dirompente, ma anzi si propone, e pochi sono coloro che l’accolgono. Nella cultura dei grandi numeri tutto ciò stride. Diffusa anche nel popolo di Dio l’idea di una fede di massa, quando ci si scontra con la realtà si comprende il senso di disorientamento. Siamo “piccolo gregge”, chiamato a essere laddove ci troviamo segno di unità da un lato e dall’altro segno di contraddizione rispetto alla cultura del tempo. Il cristiano non cede alla cultura del tempo quando essa non è in linea con la proposta evangelica, e non va alla ricerca di popolarità per avere i grandi numeri. Al tempo stesso dobbiamo esser segno di unità, perché questa sarà la misura dell’autenticità della fede proposta. Quello che si delinea è la strada della piccolezza, che permane agli occhi di Dio la strada preziosa.
A noi tutti, con le nostre mani fragili è affidata una responsabilità; non siamo padroni, ma chiamati a essere semplici servitori. “A chi tanto sarà dato, tanto verrà richiesto”: espressione forte che ci rimanda ad interrogarci seriamente su come i doni che il Signore ci ha dato sono gestiti.
La prima lettura di questa domenica declina il tema della fede non solo come una responsabilità gravosa ed esigente a cui Dio chiama la nostra umanità, ma anche come quello slancio adeguato per poter affrontare l’avventura della nostra esistenza con una consapevolezza in grado di renderci anche felici. La lettera agli Ebrei passa in rassegna i grandi padri (Abramo, Isacco, Giacobbe) e le madri (Sara) di Israele, il testo di questa antica omelia ci ricorda che una fede viva si deve modulare in una varietà di scelte: partire “senza sapere” (11,8) dove si sta andando; vivere nella “terra” (11,9) di questo mondo sapendo che si tratta di una regione “straniera”, in attesa di cieli nuovi e terra nuova; “diventare” padri e madri non come diritto, ma come “possibilità” (11,11) ricevuta in dono.
L’invito è di contemplare queste figure paradigmatiche con un vivo desiderio di poterne riprodurre i lineamenti nella nostra storia, con una creativa e coraggiosa fiducia in colui che “non si vergogna” mai (11,69) di essere chiamato nostro Dio. La fede in un futuro dove le promesse di Dio potranno finalmente realizzarsi non deve però creare nel nostro cuore l’illusione che “il tesoro” di una vita piena (12,34) possa essere raggiunto prima che venga “il Figlio dell’uomo” (12,40), cioè fuori dalla logica dell’Incarnazione e lontano dal mistero della croce. La pienezza di vita secondo il vangelo è la gioia di poter morire, “senza aver ottenuto i beni promessi” (Eb 11,13), ma dopo averne gustato il sapore ed essersi scoperti “beati” ed eredi di Dio: “perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32).
Lc 12,32-48 (Forma breve)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».