Foto: Londra, British Library, Royal ms. 16 G 6 (Chroniques de France ou de Saint Denis, 1332-1350), f. 137r: in questa “narrazione continuata” che illustra una delle più celebri cronache medievali, si vede Carlo Magno che pianifica la presa di due castelli (a sinistra) e poi partecipa all’eccidio dei nemici (a destra).
“Lieti vivevano i cittadini d’Ivrea sotto il dominio di Carlo Magno e governati dal loro Duca, o Marchese Tunone, che nulla mai attentò contro il conquistatore d’Italia, che confermato l’avea nel suo ducato, di cui forsi erano già estesi i limiti”. Così scriveva nel Capo Primo del libro III della sua Istoria dell’antica città d’Ivrea il padre Giovanni Benvenuti (1733-1818), con il fine di introdurre, in parallelo alla storia locale, gli avvenimenti fondativi del Sacro Romano Impero e la consacrazione del “pacifico imperatore” per mano del pontefice Leone III, al termine della messa mattutina del giorno di Natale dell’anno 800 nella basilica di San Pietro a Roma.
Al di là dell’idealizzazione del potere carolingio, che è una tendenza abbastanza comune nella storiografia ecclesiastica, il testo di Benvenuti è denso di allusioni a problemi politici sintetizzati nel libro precedente, ove l’autore si preoccupa di definire l’organizzazione territoriale del Canavese tra l’ultima fase della dominazione longobarda e la successiva conquista da parte dei franchi.
Secondo una considerazione di Valeriano Castiglione (lo scrittore politico del Seicento, “quell’uomo celeberrimo” autore dello Statista regnante, come ricorda ironicamente Manzoni nel cap. XXVII dei Promessi sposi), il duca di Ivrea alla metà degli anni Cinquanta dell’VIII secolo sarebbe stato Desiderio, poi elevato al trono dei longobardi in seguito alla morte di Astolfo. Com’è noto, dopo il fallimento della politica matrimoniale con cui la casa reale longobarda aveva tentato di consolidare l’alleanza con i franchi, a partire dagli anni Settanta le ostilità tra i due popoli si trasformarono in una guerra di conquista condotta e vinta da Carlo Magno.
I franchi discesero in Italia, riuscirono a forzare il blocco delle chiuse di Susa e determinarono la caduta di tutte le roccaforti longobarde, da Pavia a Brescia a Verona. “Allora fu, che i cittadini d’Ivrea, vedendo che Iddio militava in favore di Carlo Magno, a lui spontaneamente si assoggettarono, come fecero al loro esempio molte altre città subalpine”, secondo la narrazione di Benvenuti, il quale ritiene anche che l’allora duca longobardo di Ivrea, Tun(n)one o Tumione, consegnatosi al re franco, sarebbe stato confermato a capo del territorio eporediese, come premio della sua condotta.
Nella ricostruzione di Benvenuti la continuità di potere dell’antico vassallo di Desiderio serve a dimostrare (o, almeno, a suggerire) come i duchi longobardi (duces, signori militari dell’esercito) si trasformassero in conti nel periodo carolingio (comites, ossia compagni del sovrano nell’amministrazione delle province del regno, marche o contee che fossero. Sull’argomento, si veda il bell’articolo di Francesco Mosetto, I Longobardi in Canavese ad arginare i Franchi, pubblicato sul Risveglio Popolare dello scorso 31 Luglio).
Secondo le memorie storiche, al termine del conflitto sul territorio italico e di ritorno in Germania, dove una guerra contro i Sassoni richiedeva la sua presenza, il re franco sarebbe passato in Canavese. Ma davvero Carlo Magno soggiornò a Ivrea? Un documento lo attesta in maniera inconfutabile: è un diploma reale, datato appunto in “Eboreia civitate” il 17 Giugno 776, con cui il vittorioso sovrano concede i beni e le proprietà del nemico Gualando di Lavariano, ucciso in battaglia poco tempo prima, al venerabile Paolino, maestro di grammatica (“viro valde venerabili Paulino, artis grammatice magistro”).
Le fonti antiche consultate da Benvenuti datavano per errore il documento al 781, ma l’edizione critica dei diplomi carolingi coordinata da Engelbert Mühlbacher per la collezione dei Monumenta Germaniae Historica (Hannover 1906) ha corretto l’anno al 776, riportandolo coerentemente ai mesi successivi alla disfatta del regno longobardo. Il diploma originale è perduto; si conservano soltanto due trascrizioni molto tardive, una a Udine e l’altra a Cividale del Friuli, ossia nei territori interessati dal lascito a Paolino. Quest’ultimo sarebbe divenuto patriarca di Aquileia e venerato come santo subito dopo la morte.
Evidentemente si trattava di un uomo di fiducia del re franco, che contava su Paolino per la riorganizzazione della diocesi di Aquileia secondo il progetto politico carolingio. La decisione di dotare il grammatico di beni e mezzi economici inalienabili, di cui egli e i suoi eredi fossero unici fruitori (come stabilisce il diploma), fu codificata a Ivrea e autenticata dal sigillo del re (“de anulo nostro iussimus sigillare”, come si legge al termine del documento).
Il secondo soggiorno documentabile di Carlo Magno in Canavese, e precisamente a Ivrea, probabilmente fu anche l’ultimo, ed è collegato a una circostanza davvero speciale per la storia della diplomazia e del dialogo interculturale nell’Alto Medioevo. Nell’801, di ritorno da Roma ormai fregiato del titolo di imperator Romanorum e alla volta del regno franco, Carlo Magno celebrò la festività di San Giovanni Battista a Ivrea; qualche giorno prima di entrare in Canavese, però, dovette imbattersi negli “Ambasciatori di Harun-Al-Rashid re di Persia, e di Amurat Abraham re di Africa, quali li presentarono ricchi doni, e tra questi un elefante, cosa allora molto rara in Occidente”, per riprendere ancora il testo di Benvenuti.
La comitiva diplomatica, giunta dal porto di Pisa e diretta ad Aquisgrana, aveva fatto tappa a Vercelli, ma sapendo del passaggio dell’imperatore volle raggiungerlo sul suo cammino, e per questo si avvicinò al territorio canavesano (secondo Jacopo Durando la località dell’incontro fu Santhià). Colui che Benvenuti definisce “re di Persia”, Harun-al-Rashid, era in realtà il quinto califfo della dinastia abbaside, reggitore di quell’impero arabo che era giunto alla massima espansione territoriale nel Mediterraneo, dopo l’occupazione e la conquista di tutto l’antico regno sasanide (la Persia) e buona parte dell’impero romano d’oriente. Harun-al-Rashid fu il responsabile, tra l’altro, della trasformazione di Bagdad in un centro culturale e artistico a cui guardavano con interesse i dotti di tutto il mondo.
È il biografo di Carlo Magno, il monaco Eginardo, a informare che il re dei franchi, non ancora imperatore, desiderava possedere un esemplare di elefante e per questo si era rivolto al potente califfo. Nel capitolo 16 della Vita di Carlo Magno, discorrendo delle relazioni diplomatiche con i regni orientali, Eginardo precisa che la relazione tra il suo sovrano e il califfo di Bagdad fu sempre ottima, soprattutto per la liberalità con cui il secondo permetteva agli inviati del primo di visitare i luoghi della passione di Gesù Cristo e il Santo Sepolcro. Ma già alcuni anni prima Carlo lo aveva pregato di fargli dono di un elefante, sapendo che egli era l’unico re a possederlo: “cum ei ante paucos annos eum, quem tunc solum habebat, roganti mitteret elefantum”. Harun-al-Rashid esaudì la richiesta di Carlo Magno, che non fu affatto un capriccio eccentrico, inviandogli un piccolo elefante bianco di nome Abul Abbas. Le ragioni della richiesta dovettero essere varie, ma tutte avevano a che vedere con il valore simbolico dell’animale e con le qualità che gli eruditi del Medioevo attribuivano all’elefante quando accompagna un personaggio di rango reale.
Oltre alla connessione con il mondo militare, in cui si ritrova al seguito di eserciti, valicando montagne e continenti almeno sin dai tempi di Annibale, esiste infatti una tradizione, antica e orientale, dell’elefante come animale regio e imperiale: l’unico capace di riconoscere l’autorità del sovrano e di inginocchiarsi davanti a lui. In ogni caso, anche l’elefantino Abul Abbas transitò ai margini del Canavese, dove certamente si trovò più a suo agio che non alla corte di Aquisgrana. L’animale, infatti, non riuscì mai ad abituarsi al clima tedesco, tanto che si ammalò di polmonite e morì improvvisamente nell’810, quattro anni prima del suo padrone europeo.
(continua)