Foto Calvarese/Sir
Scendono in piazza, i giovani. Gridano, cantano, invocano la pace, con le mani tese e gli occhi accesi da un fuoco che non è solo rabbia, ma sete di giustizia. Vogliono cambiare il mondo, e non v’è nulla di più legittimo. Anzi, vi è in ciò una purezza che gli adulti, spesso, hanno smarrito dietro la cortina dell’abitudine.
Il loro grido attraversa le piazze d’Italia, diventa eco di un Medio Oriente che sanguina. Lì, dove discernere la parte lesa è facile, eppure difficile è trattenere l’odio. Perché ogni dolore, quando diventa parola, rischia di farsi lama. E la lama non costruisce: lacera.
Si muovono, dunque, i giovani con slanci che tentano l’impossibile scontato, sfidando il buonsenso, l’immobilità dei potenti e dimenticandosi volutamente di una dimensione diplomatica che per sua natura è riservata e fuori dalla propaganda. Ma se inciampano nella stessa trappola che vorrebbero distruggere, la violenza verbale o fisica che pretende di imporre la pace, si apre la porta dell’inganno antico, feroce, seducente.
Madre Teresa ricordava che non si può costruire la pace finché si continua a giustificare la soppressione dell’innocente. Finché la vita è messa in discussione dalla stessa società fin dalla sua origine, la guerra trova sempre una giustificazione più grande, un passo in avanti verso la distruzione. È una mentalità che non deve crescere, un veleno che non deve diffondersi; quando le proteste reggono su giustificazioni, quando le azioni partono da provocazioni, quando la mediazione non trova consenso e assenso.
La pace non cresce tra i ferri, né dietro gli slogan. È un’arte fragile, disarmata, che pretende un cambio di mentalità. E questo può venire dal basso, dai giovani, da chi ha il coraggio di scegliere una terza via, quella dell’amore, del Vangelo, della speranza che non dispera.
Sembra utopia, oggi. Ma le utopie, a volte, sono solo profezie in attesa. E la divina Provvidenza, lo sappiamo, ama sorprenderci proprio quando crediamo che tutto sia perduto.