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“Non accettare la violenza come normalità, alzare la voce quando l’ingiustizia si presenta, scegliere di costruire invece di distruggere”: è un invito che ho trovato in una lettera aperta ai giovani di Palermo. Parole che mi hanno colpito perché non suonavano come un discorso retorico, ma come un appello concreto a vivere diversamente.
Spesso pensiamo alla cultura come a qualcosa di fisso, un contenitore chiuso che custodisce regole, abitudini, linguaggi. Ma la realtà di ogni giorno è tutt’altro. La cultura è movimento, intreccio, dialogo continuo. È un insieme di significati che cambiano nel tempo, plasmati dal contatto tra persone, storie, modi diversi di interpretare il mondo. Ogni incontro modifica la forma della nostra vita quotidiana, la arricchisce di nuovi sensi. È una rete di relazioni che non si lascia chiudere in confini, e che oggi, in un mondo connesso e mediatizzato, si rigenera in ogni scambio, in ogni parola condivisa.
Mi sono chiesto che cosa significhi, oggi, essere parte di una cultura nuova. Non penso ai grandi discorsi, ma alle scelte quotidiane: il modo in cui reagiamo a un commento d’odio, come trattiamo chi è diverso, quanto spazio lasciamo all’ascolto.
All’università stiamo affrontando un tema che si lega perfettamente a questo: la “transculturalità”. In sostanza, l’idea che le culture non siano sfere separate, ma trame che si toccano. Nessuna resta identica a sé stessa quando incontra un’altra, e proprio in questo scambio si genera vita.
Lo vedo ogni giorno nei volti che incontro: ragazzi che arrivano da mondi lontani e si portano addosso accenti, gesti, memorie. Lo vedo anche in me, quando mi accorgo di usare parole che non mi appartenevano o di cambiare prospettiva dopo un dialogo sincero.
È in questi momenti che la cultura nuova prende forma: quando si smette di difendere i propri confini e si sceglie di lasciarsi attraversare.
Questa cultura cresce dove la rabbia si trasforma in parola, dove la paura diventa curiosità, dove la differenza genera movimento. È fatta di gesti semplici: ascoltare prima di giudicare, chiedere prima di escludere, creare invece di commentare. Non è perfetta, ma viva. Se continuiamo a pensare in termini della “nostra” e “vostra” cultura, di “giovani” e “mondo”, restiamo chiusi in isole che non comunicano. Invece, in una dimensione transculturale possiamo condividere valori, imparare a dialogare, crescere insieme. Le differenze, come dice il mio professore Gil, non dividono: arricchiscono. Forse è da lì che comincia la cultura che vogliamo abitare.