Il Referendum sulla riforma della giustizia, previsto in primavera si presenta come una medaglia dai due volti: in senso stretto il voto deciderà sulla separazione delle carriere dei magistrati (procura e tribunale), ma dall’altro lato sarà essenzialmente – inutile negarlo – una scelta politica pro o contro il governo Meloni.

L’Esecutivo, all’atto della sua formazione, aveva preannunciato tre riforme costituzionali: l’autonomia regionale, il premierato elettivo, la giustizia.

La riforma del ministro Calderoli sull’autonomia regionale è finita in un vicolo cieco parlamentare per due ragioni: l’opposizione del Sud (dai Sindaci ai Vescovi alla stessa classe dirigente del centro-destra) e l’innegabile caduta di ruolo politico della Lega, all’interno della quale lo stesso leader Salvini ha puntato sul ponte sullo Stretto, abbandonando di fatto i Governatori del Nord, a cominciare dal doge veneto Zaia.

Il premierato elettivo è stato accantonato per i contrasti interni alla maggioranza (soprattutto Tajani, timoroso dell’emarginazione di Forza Italia) e per la preoccupazione della Meloni di ripetere l’errore del premier Renzi nel 2016, bocciato dall’elettorato, contrario al rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo.

Sulla giustizia, invece, i sondaggi sono sfavorevoli all’Associazione Nazionale Magistrati (con un’alta previsione di astenuti): di qui la sfida elettorale, con l’obiettivo di ottenere un viatico per le politiche 2027, quando si completeranno i cinque anni di governo Meloni. La maggioranza non nasconde la speranza di ridimensionare il potere della Magistratura (ultimo conflitto, dopo il caso Albania: la Corte dei Conti sul ponte di Messina).

Inoltre il destra-centro conta sulla disgregazione del “campo largo”: sono contro la riforma Nordio Pd, M5S, AVS, mentre l’area centrista si è defilata: Renzi si è astenuto alle Camere, Calenda addirittura ha votato con l’Esecutivo. Azione e Italia viva rappresentano un elettorato del 6-7 per cento che può essere determinante nel risultato.

Siamo dunque di fronte a un’operazione non tecnica, quanto piuttosto politica. Il contenuto della legge appare infatti di minore incidenza e importanza rispetto al contesto elettorale. A buona parte degli elettori i toni apocalittici bipartisan appaiono sopra le righe: da un lato è semplicistica la tesi del guardiasigilli Nordio di un miglioramento della giustizia con la separazione delle carriere, in assenza di investimenti adeguati, a cominciare dal disumano sovraffollamento delle carceri; dall’altro lato è difficile scorgere una violazione costituzionale in una misura ampiamente attuata in altri Paesi europei.

Il vero nodo è la divisione del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) in due realtà, e soprattutto la scelta dei componenti per sorteggio: segno di scarsa considerazione per gli 8mila magistrati, col rischio di organismi delegittimati e quindi poco rappresentativi del grande ruolo della Magistratura, terzo potere dello Stato secondo la Costituzione. Una giustizia più debole rispetto al potere politico sarebbe un passo indietro, perché in democrazia nessuno è immune dal doveroso controllo di legalità, senza eccezioni (la Francia docet con il clamoroso caso Sarkozy). In questo contesto i continui “no” del governo a decisioni dei giudici (dai centri in Albania alla liberazione del generale libico) non sono un buon segnale.

La speranza è che nella campagna referendaria i comitati del “sì” e del “no” entrino nello specifico della legge, anche per evitare un vuoto di contenuti che darebbe ragione a chi (Renzi) ha ipotizzato una “riformicchia”.

Le forze politiche, con un ruolo meno aggressivo sul referendum, potrebbero dedicarsi ai gravi problemi del Paese: nella maggioranza la posizione filo-russa della Lega è ormai scandalosa, dopo l’inaudito attacco all’Italia della Zackarova, portavoce del Ministero degli Esteri russo, per il crollo a Roma della Torre dei Conti; un vice-premier (Salvini) ostile all’Ucraina non è più sostenibile. Nell’opposizione la linea Prodi di attacco frontale alla Schlein non è solo una questione interna al Pd; il fondatore dell’Ulivo denuncia l’assenza di una reale alternativa al governo Meloni, mettendo il dito nella piaga della crisi del bipolarismo.