Con l’intervento del cardinale Matteo Zuppi ad Assisi, in apertura dell’81ª Assemblea generale della Cei a cui partecipa anche il nostro vescovo Daniele, la Chiesa italiana si è trovata davanti a una analisi lucida e coraggiosa.

La nostra società non è naturalmente più cristiana – ha detto Zuppi –, ma questo non deve spaventarci… la fine della cristianità non segna la scomparsa della fede, che non è più data per scontata ma è vissuta come adesione personale e consapevole al Vangelo”.

Il quadro evocato non è nuovo: le Messe domenicali sono pressoché deserte; solo il 25% dei giovani si sposano in chiesa; i neonati non vengono battezzati; i sondaggi e le trasmissioni televisive mostrano l’ignoranza diffusa sull’abc della fede. A colpire non è tanto la diagnosi, che sociologi e operatori pastorali ripetono da anni, quanto il modo in cui il cardinale invita a leggerla; non come un tramonto, ma come un passaggio; non come una sconfitta, ma come un chiarimento; non come la fine della fede, ma come la fine di un ordine di potere e di cultura che dava per scontato ciò che, per sua natura, scontato non è: l’incontro con Cristo.

Il richiamo al filosofo Charles Taylor non è ornamentale; ha descritto il nostro tempo come una “età secolare” in cui la fede non è più l’opzione naturale. Zuppi l’accoglie senza nostalgie: se oggi credere è una possibilità tra altre, allora la fede può tornare a essere ciò che è sempre stata nei tempi migliori della storia della Chiesa, ossia scelta personale, incontro vissuto, adesione consapevole e gioiosa, passione luminosa.

Cambia l’approccio per abitudine, l’idea che la credibilità evangelica nasca da un ruolo sociale e istituzionale, che la verità dipenda dai numeri invece che dalla qualità della testimonianza. “Non dobbiamo diventare mediocri, spaventati, paurosi nella paternità e nell’assumerci responsabilità, ma più evangelici e cristiani – ha detto il cardinale, che insiste – il credente di oggi non è più il custode di un mondo cristiano, ma il pellegrino di una speranza che continua a farsi strada nei cuori. In questo orizzonte, la fine della cristianità non è una sconfitta, ma l’occasione di tornare all’essenziale, alla libertà degli inizi, a quel ‘sì’ pronunciato per amore, senza paura e senza garanzie. Il Vangelo non ha bisogno di un mondo che lo protegga, ma di cuori che lo incarnino”.