Riparte il progetto della “Casa dell’Accoglienza – Santo Bambino” di cui raccontiamo ampiamente nel giornale di oggi. Crediamo sia una risposta ai pensieri raccontati in questa storia.

“Mi sveglio con il freddo che mi entra nelle ossa prima ancora di aprire gli occhi. Ho imparato a contare i miei pochi oggetti: lo zaino con una maglia asciutta, il sacco a pelo consumato, il borsellino con pochi spicci. Ogni mattina la stessa contabilità: quanto ho, quanto mi serve. Ho imparato a mettere in fila le speranze come si mettono in fila i panni umidi ad asciugare.

Ogni volta che passo davanti a un portone penso che quella è la casa che voglio. La vedo nella mente, solo per un attimo, richiamato alla realtà dal proprietario che non accetta canoni bassi, dai contratti lunghi, dalle garanzie che non ho, dalle banche che non credono a chi non ha prospettive.

A volte la rabbia è una fiamma che mi scalda, altre volte mi consuma. Penso che le regole siano studiate per escludere chi ha già perso tutto. Poi c’è la vergogna. Non la mostro, ma la sento pesare. Evito gli sguardi, cerco di non chiedere troppo in giro. Sono grato a chi mi sorride, a chi mi da una coperta, ma ogni gesto mi ricorda che sto chiedendo, che dipendo.

Non voglio elemosine: voglio pagare il mio affitto, voglio svegliarmi e sapere che posso farlo da solo. Conto le opportunità, le referenze che non ho, penso che la burocrazia è lenta, faccio mille progetti per una casa tutta mia: lavoro, risparmio, qualche aiuto. Ho paura della salute, dormire male ti spezza, ho dolori che prima non c’erano, ma farmaci e visite costano ciò che io non ho.

Resta la speranza fatta di piccoli gesti: la volontaria che ricorda il mio nome, un passaggio in auto, una telefonata rincuorante. Mi arrabatto ogni giorno, raccolgo offerte, faccio piccoli lavoretti, chiedo ai conoscenti, vado ai centri di aiuto.

La cosa che desidero di più non è l’assistenza permanente ma l’autonomia. Ci sono giorni di scoraggiamento in cui mi chiedo se non sia più facile mollare tutto, ma poi accetto i pasti, vado ai colloqui, dormo dove riesco, e immagino la chiave che gira nella porta di casa, io che tiro su la tapparella e preparo un caffè. È un pensiero piccolo, semplice. Me lo tengo stretto come un tesoro”.