Il Natale arriva puntuale, quest’anno in un tempo più strano del solito per le parole. Ne circolano moltissime, pesano un sacco, durano poco. Mai come oggi siamo così colpiti dalle parole, eppure così poco capaci di comprenderle.

C’è una povertà che raramente entra nei discorsi natalizi: la povertà culturale. Non fa rumore, non le dobbiamo pacchi alimentari, ma lascia segni profondi nei solchi del tempo. È la fatica crescente a leggere un testo, a seguire un ragionamento, a distinguere un fatto da un’opinione. È la rinuncia lenta, ma costante, alla complessità, come se pensare fosse un lusso; è l’indebolimento dello spazio di mediazione, di verifica, di responsabilità per far posto a flussi incontrollati di informazioni, dove vero e falso convivono senza più confini riconoscibili.

Le fake news prosperano proprio qui: nella stanchezza di chi non ha più voglia di verificare, nella fretta di condividere, nel bisogno di sentirsi dalla parte giusta senza passare dal dubbio. E non risparmiano neppure il Natale. Lo inquinano con paure costruite ad arte, polemiche sterili, narrazioni che dividono ciò che dovrebbe unire.

Il racconto natalizio è l’esatto contrario della notizia veloce. Chiede tempo, ascolto, attenzione ai dettagli. È una storia che non si capisce a colpo d’occhio e che non funziona per slogan. Forse è anche per questo che oggi facciamo fatica a riconoscerla: perché ci siamo disabituati alla profondità, alla lettura lenta, al pensiero che non si consuma in un click.

Forse il Natale, quest’anno, potrebbe cominciare da qui: dal recupero del tempo necessario per capire, dal rispetto per le parole, dalla responsabilità di informarsi senza lasciarsi trascinare dal rumore. Perché senza verità non c’è dialogo, senza dialogo non c’è comunità, e senza comunità anche il Natale rischia di ridursi a una bella immagine, rapidamente scorsa e rapidamente dimenticata.

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