Ci sono delle leggi che cambiano la storia. La legge Basaglia non è stata qualcosa di straordinario solo per la potenza del suo effetto, ma perché si è inserita in un contesto storico ricco di cambiamenti sociali che hanno portato al riconoscimento di diritti umani e civili. Gli anni ‘70 sono stati un’onda travolgente per chi ha creduto nel valore di ogni essere umano e, nel 1978 è stato possibile pensare di poter chiudere i manicomi. Non tutte le leggi hanno trovato la società pronta ad accogliere i cambiamenti. La legge 180 ha permesso di guardare al malato mentale come una persona degna di essere curata non solo con trattamenti farmacologici e contenitivi – disumani e opposti al riconoscimento della dignità della persona -, ma con l’assistenza e l’amore di cui ha bisogno per potersi ristabilire. L’amore di una famiglia, ma anche l’amore di una comunità.

Qui sono sorte le differenze. Piccole comunità sono state capaci di accogliere ed integrare chi tornava a casa; per contro, città o contesti più ampi hanno fatto fatica a fermarsi e a donare spazi e intelligenze capaci di riconoscere come umano chi tornava da luoghi inimmaginabili. Finire in manicomio era facile. Il concetto di malattia mentale era così ampio e così tanto legato ad una normalità – che spesso aveva a che fare con la moralità o con ciò che il contesto storico considerava “normale” o “intelligente”- che faceva definire “pazzo” anche chi non c’entrava nulla.
La cura, quella considerata tale perché portava a ristabilirsi dalla malattia, nei contesti manicomiali non esisteva. Era possibile contenere, ma impensabile di poter far ritornare alla vita. Lo stesso riflettere sul concetto di vita era diverso: chi era “matto” non poteva avere una vita insieme agli altri a meno che, gli altri, non fossero uguali a lui.
Gli uomini e le donne che sono usciti dai manicomi in quegli anni, erano persone diverse dalla moltitudine considerata normale e molte persone non ce l’hanno fatta ad ottenere il riconoscimento di esseri umani: sono state comunque esiliate, hanno cominciato a fare parte di quel popolo che la notte affollava i marciapiedi delle stazioni dormendo sui cartoni e spingendo carrelli pieni della loro vita; “robaccia” per la maggior parte dei passanti.

Ora non è tutto a posto, non abbiamo risolto tutto: sono cambiati i farmaci, sono cambiate le definizioni delle patologie psichiatriche, anche il concetto di malattia mentale si è modificato, le leggi sul lavoro tutelano chi è in difficoltà, ma le strutture di diagnosi e cura fanno fatica a mantenere un minimo standard di qualità per la mancanza di fondi e di personale o per la possibilità di promuovere un sostegno psicosociale oltre a quello più strettamente farmacologico.
La spinta di cambiamento che permetteva a medici ed infermieri di ridipingere le pareti delle strutture di accoglienza, che faceva appendere quadri colorati alle pareti, che imponeva di accogliere chi si avvicinava con un sorriso, si sta spegnendo. Si rischia, oggi, di non avere quella forza di accogliere le sfide attuali del disagio sociale, perché le malattie cambiano, coinvolgono altre persone, richiedono altri interventi.
C’è bisogno di un coraggio nuovo, di persone che, come Basaglia ed il suo gruppo, sappiano raccogliere i frutti del cammino fin qui percorso e si mobilitino con forza e coraggio per promuovere servizi di nuovo all’avanguardia.

Cristina Terribili