Non ero mai stato in piazza Gae Aulenti a Milano dove sembra di essere in un’altra città. O meglio, so benissimo di essere a Milano, ma in un quartiere particolare, tipo la Défense a Parigi. Sì, sono stupito perché le costruzioni più elevate e a me note, che sono poi il mio riferimento, sono i campanili di Tonengo o di Azeglio o le torri del Castello di Ivrea. Quei grattacieli lì a Milano mi fanno anche girare un po’ la testa. Certo che sono abbastanza strani. Nelle vicinanze c’è un grattacielo con gli alberi sui davanzali degli appartamenti. Mi immagino che negli sgabuzzini abbiano gli acquari. La cosa singolare è stata il cinguettio degli uccellini che dava all’insieme un tocco di surreale, acuito dal caldo che la faceva da padrone.

Poco dopo mi sono infilato in via Paolo Sarpi, a vedere la Chinatown milanese, dove oltre ai cinesi ci sono molti altri negozi, fast food, supermarket… tanta roba in plastica. Noto che molti però sono chiusi: effetto lungo della pandemia.

Debilitato dal calore, ho preso la metro per tornare alla stazione ferroviaria di Milano Centrale. Pullula! Affollatissimo: torme di persone con trolley, gruppi infiniti di masse umane in movimento. Sulla metro mi sono ritagliato a fatica quei 25 centimetri quadrati per i piedi, mantenendo la posizione eretta e afferrandomi all’apposito sostegno.

Mentre riflettevo che a Milano vedi in giro soltanto giovani, come se non esistessero gli ultrasessantenni, e mentre ancora mi chiedevo dove erano quelli nati tra il ‘55 e il ’65, un giovinotto straniero mi si rivolge gentile e mi chiede se voglio sedermi, offrendosi di cedermi il posto. Io calcolo che ho solo una fermata prima di scendere, quindi rifiuto ringraziando.

Soltanto allora realizzo che agli occhi di quel giovane ero ormai visibile come anziano, come una categoria protetta che aveva diritto al posto a sedere.

Arrivato nelle viscere della stazione, emergo dal sottosuolo e finisco sotto le alte arcate metalliche della stazione con le vetrate che rendono il calore particolarmente tremendo. In più i treni con i motori accesi vomitano aria calda tipo pentola a pressione sotto una serra. E anche lì migliaia di persone che vanno e vengono. Mi viene in mente che forse siamo in troppi sul pianeta. O per lo meno siamo concentrati in poco spazio.

Con questi pensieri nella testa, il giorno dopo mi alzo per andare al lavoro mentre alla radio riprendono con la storia delle pensioni, dei sempre meno lavoratori e sempre più pensionati, fino a che l’intervistato di turno si sofferma sulle difficoltà di reperire le risorse per i futuri pensionati e parla del tempo che fu il “baby boom”, cioè quel milione di leve dei primi anni ’60 contro i circa 400 mila – sempre all’anno – dei giorni nostri. Meno della metà.

Spengo la radio perché sono arrivato al parcheggio e penso alle cose da fare nella giornata. Penso a Milano del giorno prima e vedo Ivrea deserta senza gli studenti nelle prime ore del mattino.