Scrivo di getto, senza pensarci troppo, senza consultare dati statistici; d’altra parte non sono un esperto nel campo dei numeri e francamente non mi interessa considerare l’andamento, in questi 50 anni, della percentuale di aborti.
La campagna pro legge a favore dell’aborto era basata sulla constatazione che molti atti abortivi venivano effettuati clandestinamente, in condizioni di scarsa o nulla sicurezza e quindi costituivano un pericolo per la donna. La situazione corrispondeva sicuramente alla realtà, ma il rimedio si è rivelato fallimentare: non per quanto riguarda la sicurezza nella quale si svolge l’atto abortivo, quanto per ciò che riguarda la tutela della dignità della donna. Molte persone di mia conoscenza ritennero giuste le motivazioni e, in buona fede, votarono a favore in occasione del referendum per poi ricredersi successivamente constatando che, da una parte l’Interruzione Volontaria di Gravidanza venne utilizzata come espediente correttivo ad una pratica anticoncezionale mancata, dall’altra invece di tutelare i diritti e la sicurezza della donna la esponeva ad una schiavitù peggiore (la mercificazione del proprio corpo come oggetto di piacere). L’ipotesi formulata da Pasolini, che l’aborto aumentasse la libertà sessuale della coppia e che questa libertà “tacitamente voluta dal potere dei consumi, diventasse una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, un nuovo stile di vita con conseguente vera e propria sclerotizzazione dei valori”, trova riscontro oggi nella visione pansessuata dell’umano e, conseguentemente, dell’utilizzo del corpo della donna per la pubblicità di qualsiasi prodotto.

Quello che stupisce è che ciò avvenga nel completo silenzio dei movimenti femministi, che non sembrano più in grado di denunciare e contrastare l’utilizzo del corpo della donna a scopo commerciale. Il pensiero si è sclerotizzato su un cliché, denominato “politicamente corretto”, che non è altro che una dittatura ideologica.
Prova ne è la reazione scatenata dal manifesto esposto a Roma rappresentante un feto all’undicesima settimana, termine entro il quale è ancora consentita l’interruzione della gravidanza, che portava la scritta “Ora sei qui perché la tua mamma non ti ha abortito”. Sono state espresse vibranti proteste motivate dal fatto che induceva sensi di colpa nelle donne che avevano abortito. Il manifesto è stato prontamente rimosso! Meno male che numerose voci, anche laiche, hanno stigmatizzato il comportamento antidemocratico delle istituzioni.
Vorrei però far osservare che quel feto, in utero, non c’è andato da solo. Del papà il manifesto non ne fa cenno: segno che la scorciatoia dell’aborto, che voleva tutelare la donna, l’ha di fatto lasciata sola di fronte a questa terribile esperienza.
Inoltre il manifesto esprime una verità inconfutabile, sicuramente non così iconograficamente evidente nel 1978, dato che l’ecografia era allora agli albori. Ora, che le verità che evidenziano un nostro errore inducano una presa di coscienza, mi sembra normale ed anzi salutare. Nessuno di noi è cresciuto in ragione delle cose giuste che ha fatto, ma correggendo i propri errori. Ad una condizione, però: che vi sia la possibilità di ricevere il perdono. Se questo è stato escluso, l’unica possibilità che abbiamo di sopravvivere è negare l’errore: con le conseguenze gravissime che ne conseguono. Dio ha provveduto tramite suo Figlio a che ottenessimo il perdono dei peccati. Ma la legalizzazione dell’aborto non è in primo luogo una violazione di una norma morale valida soltanto per chi aderisce ad una fede, quanto il primo tassello che ha minato l’Essere dell’Uomo. Non poteva essere altrimenti visto che ha toccato la Vita.

Eugenio Boux
Presidente Associazione Italiana Medici Cattolici, diocesi di Ivrea