(Fabrizio Dassano)

Ho passato un pomeriggio diverso dal solito per aiutare un’amica. Questo perché sono essenzialmente tanto disponibile e molto buono.

La mia amica, alla morte della zia, si è trovata ad essere proprietaria di alcune particelle di terreno agricolo. Per recuperarne la collocazione ci affidiamo alla consulenza di un contadino – uno di quelli “veri”, con tanto di trattore, cani e cascina –, che si chiama Giuseppe e che in un archivio personale raccoglie le mappe catastali dei terreni che coltiva, sia di proprietà sia – soprattutto – in affitto. Unendo i dati delle carte con i ricordi giovanili e la toponomastica della zona, dopo circa un’ora di ricerche sulla carta, usciamo sul campo alla ricerca dell’unica parcella di cui non siamo riusciti a trovare le coordinate: un bosco perduto sulle colline, tagliato probabilmente in due o coperto dall’autostrada costruita negli Anni ’70.

Vaghiamo sui sentieri che attraversano i boschi. C’è un bel sole e una temperatura poco invernale nelle prime ore del dopopranzo, e dopo aver salito una erta china ci troviamo ad un sottopasso dell’autostrada, preannunciato dal rumore degli autoveicoli che rombano sulle nostre teste squarciando le minime sinfonie ancestrali del bosco. Invece della caverna di cemento, imbocchiamo una stradina che costeggia un muro di cemento continuo: sembra quasi infinito e poi scopriamo che gira tutto intorno alla punta di un collina, come una base di qualche ziggurat, rialzata di circa 3 metri. Torniamo indietro e decidiamo di risolvere il mistero prendendo il sottopasso.

Davanti a noi compare un’altra rampa di cemento che sovrasta l’autostrada: questa volta è un soprapasso. La imbocchiamo ed usciamo dall’altra parte, dopo aver attraversato il ponte, e troviamo dei blocchi di cemento che ostruiscono la strada asfaltata d’accesso al grande piazzale sovrastante, come in una frontiera orientale chiusa ma non presidiata, abbandonata alla storia. C’è un tornello di metallo ed entriamo in questo “non luogo” deserto. Dopo pochi passi ci troviamo in una piazza enorme di puro asfalto, bordeggiata da ciò che resta del bosco. Evidentemente a suo tempo spianarono la collina e ci fecero un parcheggio autostradale ora in disuso.

Guardando attraverso gli alberi notiamo sotto di noi, quasi a picco, il grande lago. Torniamo indietro tra la vegetazione che si sta mangiando l’asfalto e troviamo un secondo tornello ed entriamo in un altro “non luogo” per eccellenza: l’Autogrill. Siamo passati da una dimensione silvestre selvatica ad un luogo che può essere un qualunque posto di sosta della rete autostradale. Un passaggio brusco, che necessita di un caffè al banco previo greenpass esibito.

L’iniezione di contemporaneità ci è sufficiente e ci riportiamo subito nel bosco per affrontare la via del ritorno. Sospendiamo la ricerca del fondo ad altra occasione e ci godiamo una deviazione sin sulle rive selvatiche del lago. Ci sono i cigni che stanno per metà sott’acqua con il sedere bianco e pennuto, a forma di triangolo, in aria. Sono presto raggiunti dalle folaghe che fischiano, curiose come le galline. Tutto sembra immobile nell’acqua trasparente.

Torniamo così all’auto e nel frattempo un amico lontano ci manda con il telefonino la vista dal satellite di dove siamo finiti: non uno, bensì due sono i grandi parcheggi asfaltati, contigui che vediamo aver preso il posto di due punte di colline, trasformandole in due piatte colate d’asfalto.

Com’era differente il senso del paesaggio 50 anni fa, quando si creavano con dedizione i nuovi ruderi “post moderni” del presente.