(Susanna Porrino)

Sta scuotendo non poco gli animi la storia della bambina morta ad appena dieci anni per una sfida sulla piattaforma online di TikTok. Una vicenda che ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulla più totale impreparazione di adulti e ragazzi giovani di fronte alla vastità e ai pericoli della realtà web.

Se oggi piangiamo la scomparsa di una bambina di dieci anni per una sfida social, quattro anni fa constatavamo attoniti l’esistenza di una sfida online della “blue whale” per mezzo del quale un numero imprecisato di adolescenti sono stati indotti al suicidio; un anno fa la piattaforma online Cyberlaws denunciava l’esistenza di un “choking game“ che consisteva nel togliersi il respiro fino a svenire.

Ci piace convincerci che sia un problema in qualche modo raggirabile con qualche tentativo in più di educare i ragazzi ad un mondo che gli adulti stessi conoscono pochissimo: ma la realtà sta mostrando che non possiamo chiedere a dei bambini la maturità e l’autocontrollo difficili da riscontrare anche in chi di anni ne ha molti di più. Di fatto quasi nessuno ha in mano reali soluzioni per introdurre anche in ragazzi sempre più giovani un uso consapevole degli strumenti moderni.

La verità è che per educarci a riconoscere ciò che è pericoloso sul web mancano gli strumenti e le conoscenze, quelli che abbiamo invece nella vita reale: ad un genitore che vede il figlio avvicinare la mano al fuoco basta la frase “non toccare, ti bruci”, mentre per gli insegnamenti più complessi (“non parlare con gli sconosciuti, non aprire agli estranei”) sono per secoli venute in aiuto le fiabe.

Questi moniti funzionavano (e funzionano) perché l’insegnamento è chiaro, netto; mentre oggi i genitori si trovano ancora più disorientati dei figli nel tentativo di cogliere l’inizio e la fine di una realtà ancora fondamentalmente inesplorata, e nell’illustrare la differenza tra ciò che è virtuale e ciò che invece è reale.

Si tratta poi di insegnamenti che funzionavano anche perché facevano leva su un sentimento innato in ogni uomo: la paura. Fino a una quindicina di anni fa le storie e i film per bambini avevano delle figure malvagie dai contorni molto precisi, pensati per spaventare e dare una sembianza a quegli spazi dell’esistente da cui occorre tenersi lontani.

Oggi si preferisce insegnare che tutto è relativo, e i bambini non hanno più schemi entro cui incasellare gli aspetti della realtà, e fanno i conti con un’emotività attivata o disattivata sapientemente dagli input esterni senza alcuna implicazione nella sopravvivenza.

Anche la paura invece va insegnata, e la si deve sapere somministrare con cura; oggi fin troppi bambini sono assuefatti dalla violenza e dalla crudezza, abituati fin da piccoli a guardare su uno schermo scene macabre e inquietanti, o al contrario convinti che non esista una realtà che non sfoci nel gioco. La loro normalità è spendere ore in prigioni virtuali dove la lucidità è un miraggio a cui nessuno è stato educato, e in cui nei casi meno estremi imparano a sviluppare per se stessi una serie di aspettative e ambizioni inarrivabili a cui si sforzeranno in tutti i modi di conformarsi.

Il narcisismo non si eredita né lo si inventa: lo si impara guardando chi ci sta intorno, e scoprendo il piacere di essere guardati noi stessi. Perché ci si chiede se una bambina saprebbe resistere alla tentazione di conquistarsi un palcoscenico virtuale, se molto (troppo) spesso non sono in grado di resistervi neanche gli adulti? Marco Montemagno, imprenditore e creatore di contenuti web, ha illustrato bene la situazione in un suo intervento su YouTube: “Un ragazzo oggi vive in uno stato di comparazione permanente. È come avere Thor di fianco H24: il nostro cellulare è il nostro Thor, che è più figo, più bello, più forte. E poi si parla della necessità di non paragonarsi agli altri. Certo, a parole tutti lo sappiamo. Nei fatti, la tua identità sociale passa per questo aggeggino qua, che tutto il giorno ti dice: “io sono Thor, tu non sei Thor”.

Non abbiamo gli strumenti per aiutare le nuove generazioni (così come, probabilmente, a volte fatichiamo a trovare gli strumenti per aiutare noi stessi) a interfacciarsi con pressione di questo genere. E allora, forse, almeno negli anni della preadolescenza, bisognerebbe semplicemente imparare a chiudere le porte al rischio.

Non è vero che ormai, anche per un bambino, è impossibile condurre una vita senza telefono e senza i social; si dovrebbe dire piuttosto che forse troppo spesso i genitori non sanno che risposte dare ad un figlio che ha paura di sentirsi diverso o escluso dal gruppo, incapaci loro stessi di realizzare quale ricchezza sarebbe permettergli di crescere libero e al riparo dalla fame costante e irresistibile di sguardi e di attenzione altrui, in una realtà in cui il peso degli sguardi, anche nella vita reale, si fa già fin troppo sentire.