C’era una volta Bussana Vecchia. E c’è ancora. E’ una frazione collinare del Comune di Sanremo. Il violento terremoto del 23 febbraio 1887 semidistrusse il paese (fino a quel momento chiamato semplicemente “Bussana”), tanto che l’area venne completamente evacuata dagli abitanti, i quali si spostarono circa tre chilometri più a valle, fondando il paese di Bussana Nuova.
Bussana Vecchia resiste nella sua accezione di luogo unico per essere stato felicemente riabitato da una comunità di artisti internazionale. Un villaggio di utopia che resiste anche se il 1968 è ormai lontano e i figli dei fiori sono un capitolo ingiallito della storia del pop. Eppure il suo fascino è immutato. Le cicale accompagnano la vista di quello scenografico ammasso di rovine, nei cui più reconditi anfratti rivivono forme d’arte. È un posto dove il consumismo è tenuto fuori e c’è un prato nella chiesa scoperchiata.
Fa riflettere la capacità umana di reinterpretare e rivivere un posto abbandonato da altri umani in altri tempi. Abbandonato perché distrutto dalla natura. Mi rendo conto quanto sia singolare questa storia al ritorno a Ivrea passando per quella grande cattedrale olivettiana del Bauhaus che è via Jervis.
Allora provo ad immaginare che uno dei figli di Bussana, che chiameremo per caso Enea, occupi con un manipolo di artisti le architetture che sono, al di là dei tempi dell’uomo che fu, e le trasformino in una nuova Bussana! Col tempo sorgerà un nuovo tempio dedicato all’arte dell’uomo. Quel tempio in grado di essere ricostruito con poco o nulla, senza stravolgere o riedificare un’antica rovina di una civiltà perduta. Ci saranno negozi dello spirito e ristoranti per la mente condotti da chef dell’anima. Ci saranno sale giochi del pensiero e non ci sarà alcun biglietto di ingresso. Arriveranno da tutto il mondo per vedere la città di utopia viva e vegeta.
Fabrizio Dassano