(guido gabotto) – Il convegno tenutosi a Cagliari qualche giorno fa (27-28 ottobre),

(cliccando qui il link al programma completo, veramente ricco)

che ha (ri)messo al centro dell’analisi la figura di Adriano Olivetti, questa volta nel suo rapporto, in particolare, con la Sardegna, pare porre le basi per nuove ragioni di approfondimento, per un lavoro che dovrà continuare.

Ciò sembra tanto più evidente soprattutto se pensiamo a due circostanze, tra di esse del tutto indipendenti, eppure (provvidenzialmente?) convergenti: per ora soprattutto suggestioni, stimoli, come detto, per un’ulteriore riflessione, che cerchiamo di declinare secondo possibili criteri di ricerca.

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La prima è l’intervento che in quella sede è stato affidato al Cardinale Arrigo Miglio (e che possiamo, qui di seguito, integralmente proporre, per gentile concessione dell’eminente Autore) che conclude citando il convegno diocesano del 2008, significativamente intitolato “Olivetti è ancora una sfida”.

La seconda è – questa sicuramente una coincidenza temporale – rappresentata dal fatto che il convegno di Cagliari si è iniziato nel giorno anniversario della morte di Enrico Mattei (Acqualagna, 29 aprile 1906 – Bescapè, 27 ottobre 1962) rendendo così impossibile rintuzzare l’idea di ripercorrere il parallelismo, più volte indagato in questi 60 anni e oltre, tra le due figure, tra la vicenda terrena dell’uno e dell’altro, ma soprattutto tra le visioni economiche, imprenditoriali, sociali e politiche rappresentate dai due capitani di industria, da due simboli del capitalismo, privato e pubblico.

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E’ proprio l’intervento del Cardinale a trattare il tema destinato a dire che il lavoro degli Storici sia tutt’altro che terminato o caduto in desuetudine anche perché, con il passare del tempo, lo sguardo irrequieto della cronaca, quello della politica, che sconta sempre una certa eteroforia, cedono necessariamente (fortunatamente?) il passo a quello indagatore della Storia.

Perché l’analisi del rapporto tra Adriano Olivetti e la politica, dei fermenti e dei movimenti della società italiana negli Anni ’50 e ’60, non può prescindere dal tentare una sinossi in cui abbiano l’adeguato rilievo almeno due campi di interesse: il dibattito interno alla Democrazia Cristiana ed il rapporto tra la Chiesa, il laicato cattolico e quello sociale in particolare, la politica.

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Temi che qui possiamo tratteggiare “per titoli” e non certo esaurire.

Ma è possibile però dire che, verso la fine degli Anni Cinquanta e gli albori del decennio successivo, si affermi nel partito di maggioranza relativa una classe dirigente che gli Storici hanno chiamato la “Terza generazione” (1), subito chiarendo, in tal modo, che si fosse in presenza di altro ceto politico, diverso da quello popolare e financo da quello coevo di Giuseppe Dossetti, di questi, semmai, in larga parte cresciuto alla scuola: per condensare in una (incompleta) fotografia, dopo “Iniziativa Democratica”, la corrente dei “Dorotei”.

Così, negli anni in cui muoiono Adriano Olivetti ed Enrico Mattei è Segretario politico della Democrazia Cristiana proprio Aldo Moro.

Tutt’altro che di orientamento conservatore – come a taluno sarebbe, due decenni più tardi, parso possibile qualificare la corrente dorotea – quell’esperienza raccoglieva parte consistente dell’eredità dossettiana, mentre iniziavano a formarsi (solo, come si direbbe oggi, un “germoglio”) la Sinistra sociale che attingeva soprattutto dalle Acli e dalla Cisl e la sinistra politica, concepita – si potrebbe dire, forse riduttivamente, ma per necessità di esemplificare – “a tavolino”, già a partire dal Convegno di Belgirate del settembre 1953 (2).

Se, quindi, la prima (la sinistra sociale) avrebbe poi visto formarsi la corrente di Forze Nuove, con la leadership di Carlo Donat Cattin, la seconda si sarebbe riunita nella sinistra di “Base”, che fu (anche, non esclusivamente) una sorta di “autorappresentazione privilegiata” in politica proprio di Enrico Mattei (3).

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Sullo sfondo, però, al di là delle discussioni sulla “forma partito” e sulla dialettica tra correnti, c’è una visione comune, che è la cifra dell’ora e di quella fase storica.

La gran parte della Democrazia Cristiana ed una visione largamente maggioritaria della nozione di “cattolicesimo democratico” è portatrice di una particolare interpretazione di quella stessa “economia sociale di mercato” che è nel cuore, prima ancora che nei pensieri e nei progetti, di Adriano Olivetti.

La sintonia, però, non va oltre.

Si tratta della stessa visione che la Democrazia Cristiana tradurrà nel governo del Paese con la stagione (esemplifichiamo, ma soprattutto semplifichiamo) delle “Partecipazioni statali”, dando per acquisito il superamento della visione einaudiana del rapporto tra Stato e mercato, ponendo, anzi, al centro dei programmi politici l’intervento diretto dello Stato nei processi economici.

Come è possibile intuire solo da questi accenni (niente più, come abbiamo anticipato, che “titoli”) si tratta di una “storia” politica nata e sviluppatasi in territori culturali molto lontani da quelli di cui fu espressione Adriano Olivetti.

E ciò può concorrere a spiegare come, in fondo, la sua conversione al cattolicesimo trovò l’ “asse” tra Chiesa e partito impreparato a considerarne le potenzialità, come se si trattasse di un’esperienza che fosse (pericolosamente) “altro”.

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Quella fase storica ci dice, peraltro, di un “collateralismo” con la Dc (ancora presidiato dalla Gerarchia con occhiuta vigilanza) per esempio, delle stesse Acli, dalle quali nacque una Cisl da subito caratterizzata dalla dialettica tra Giulio Pastore e Giuseppe Rapelli, che vide la non facile affermazione di una “autonomia” destinata poi ad essere sempre vissuta come una sorta di “segno di contraddizione”.

Il “collateralismo” delle Acli terminerà soltanto nel 1970 con quella che fu definita (forse più da altri che all’interno del Movimento) “scelta socialista” vagheggiata nella relazione conclusiva del Presidente Emilio Gabaglio, al convengo di studi di Vallombrosa, nell’agosto 1970   –Leggi qui –

Ma soltanto nei primi Anni Novanta sarà superata nei fatti l’esperienza che caratterizzò quasi 50 anni di storia del Paese, detta dell’ “unità politica dei cattolici”.

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Dunque, da un lato, non fa meraviglia se l’epopea di Adriano Olivetti fu da molti concepita come qualcosa di “eterodosso” e comunque distante dal proprio sentire: un’esperienza di capitalismo privato che si faceva partito, intendendo concorrere al governo del Paese.

Un Paese largamente pervaso dall’azione e dagli esiti di un capitalismo pubblico il quale, a sua volta, pur se in dialogo con tutte le forze politiche, si era organizzato soprattutto all’interno del partito di maggioranza relativa.

Né – in questa chiave – d’altro lato sorprende se un cattolico lungimirante e intelligente, fu riguardato come “altro” dalla stessa comunità dei credenti.

Ed anche come un interlocutore (eccessivamente?) proteiforme nel sistema delle relazioni industriali e sindacali.

Ma proprio per questo e per questa triplice possibilità di ulteriore indagine storica, la vicenda umana, spirituale, imprenditoriale e sociale di Adriano Olivetti meriterà sempre ulteriori contributi soprattutto volti a cogliere, anche così, i “segni dei tempi”.

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Riferimenti bibliografici:

  • Giovanni Tassani, “La terza generazione” – Edizioni Lavoro, Roma, 1988;
  • Luca Merli, “Antologia de La Base” – Edizioni EBE, Roma. 1971;
  • Giorgio Merlo, Gianfranco Morgando, “La Sinistra Sociale, storia, testimonianze, eredità” – Edizioni Studium, Roma, 2016.

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Ma ecco ora il testo integrale dell’intervento del Cardinale Arrigo Miglio.

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ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA

Cagliari, 27-28 ottobre 2023

Cattolici, Politica, DC e Comunità Partito in Adriano Olivetti

Intervento del Card. Arrigo Miglio

Ho provato a raccogliere alcuni ricordi degli anni ’50 fino al ’60, anno della morte di Adriano Olivetti, legati a vicende che ho vissuto sia nel contesto di uno dei 102 comuni del Canavese – San Giorgio – sia dal particolare punto di osservazione del Seminario Diocesano di Ivrea, alunni, educatori e professori.

Già le radici famigliari dell’Ingegnere erano particolari, proveniente dalle due piccole ma significative minoranze religiose presenti in Ivrea, comunità ebraica con una propria sinagoga e un proprio cimitero e comunità valdese con propria chiesa e proprio cimitero.

Lui era diventato cattolico negli anni dopo la guerra, e da suoi scritti, ma anche dalla testimonianza dei sacerdoti che lo avevano seguito (il parroco della sua parrocchia D. Fiorina e Mons. Adamini, amico di famiglia) si capisce che fu un passo meditato e consapevole.

Un bel motivo di soddisfazione per la diocesi, dove tutti erano molto riconoscenti verso una famiglia che da oltre 40 anni dava lavoro e prestigio agli eporediesi.

Anche il padre ing. Camillo era conosciuto e benvoluto da tutti, ma purtroppo aveva dovuto lasciare Ivrea a motivo delle leggi razziali.

Morirà a Biella nel ’43.

Negli anni che vanno dalla fondazione della Ditta alla morte di Adriano la diocesi ebbe due vescovi, Mons. Filipello e Mons. Rostagno, ambedue del clero torinese, che rimasero a Ivrea il primo dal ’98 al ’39 e il secondo dal ’39 al ’59, in una diocesi di salda tradizione cattolica post tridentina, ricca di clero, dove l’ecumenismo era ancora una parola sconosciuta, salvo poche eccezioni, e la dimensione della laicità era lontana dalla visione cattolica del tempo.

Dopo la guerra però si svilupparono nuovi fermenti in campo cattolico e crebbe l’associazione delle Acli, che ebbe come assistente Mons. Pietro Giachetti, più tardi divenuto vescovo di Pinerolo.

Egli ebbe vari incontri e dialoghi con Adriano Olivetti e nel ’60 in una intervista a “Il Regno” diede una sintesi dei rapporti tra il mondo cattolico locale e Olivetti.

Anche sul settimanale diocesano “Il Risveglio Popolare”, comparivano ogni tanto articoli critici nei confronti della nuova cultura portata da Adriano, ancora diversa dalla cultura del mondo industriale presente nelle altre zone del Canavese.

In particolare questa differenza si notava nei confronti del modello Fiat: si pensi, ad esempio, ai grandiosi pellegrinaggi aziendali Fiat a Lourdes e ai Cappellani del lavoro.

Niente di tutto questo in Olivetti.

Molto apprezzata naturalmente era la generosità di Olivetti, verso i più poveri e verso istituzioni assistenziali e educative; inoltre era stato Adriano a far costruire la chiesa parrocchiale nel nuovo quartiere di S. Grato voluto dallo stesso Ingegnere.

Molto ammirati anche i servizi sociali offerti ai dipendenti, compreso il servizio trasporto per i pendolari, che così potevano abitare al paese e coltivare la loro piccola proprietà.

In una stagione di grande immigrazione dal sud al nord dell’Italia spiccava anche l’attenzione di Olivetti per il sud: oltre all’interesse per la Sardegna, tema di questo convegno, pensiamo a Pozzuoli, all’interesse per Matera e ai rapporti col giovane sindaco di Tricarico Rocco Scotellaro, morto prematuramente nel ’53.

Adriano Olivetti volle farsi carico del monumento eretto sulla sua tomba.

Ad Adriano Olivetti veniva riconosciuta una carica innegabile di spiritualità, che si manifestava, ad esempio, nei suoi discorsi ai dipendenti (si pensi al famoso discorso in occasione del Natale ’55) ma anche nei comizi delle sue campagne elettorali, con citazioni di Vangelo e di Padri della Chiesa.

A non pochi tutto ciò sembrava invasione di campo!

C’erano poi le preoccupazioni dei parroci per il sorgere dei centri Comunità in vari paesi, che diventavano concorrenti degli oratori parrocchiali, meno attrezzati e meno dotati di mezzi.

Preoccupazione anche per la nuova grande biblioteca aziendale, dove ogni dipendente poteva trovare testi di varie tendenze e culture, lontane dalla cultura cattolica del tempo, e per i giovani assunti presso il CFM, dove non c’era istruzione religiosa ma anzi dove spesso venivano invitate voci lontane e critiche nei confronti della Chiesa.

Il mondo contadino poi guardava con sospetto la nascita di una cooperativa agricola, idea lontana dalla mentalità dei piccoli proprietari canavesani.

Da parte dei cattolici socialmente più sensibili e impegnati politicamente venivano aspre critiche nei confronti della politica aziendale, pur ammirando la modernità dei servizi sociali offerti: l’accusa era quella di un paternalismo che in tal modo frenava la crescita di una coscienza sociale e politica più matura.

Più forti ancora furono le critiche nei confronti del sindacato aziendale, che penalizzò specialmente il sindacato di ispirazione cattolica.

Peggio poi quando Comunità divenne un partito e Olivetti nel ’56 vinse le elezioni comunali e divenne sindaco di Ivrea.

Sappiamo invece come finì l’avventura politica del ’58.

I due grandi partiti Dc e Pci erano forti.

Dopo la morte dell’Ingegnere e con le novità degli anni ’60, per la Chiesa e per la politica italiana, le cose cambiarono.

La cultura Olivetti rimase sempre laica, ma i cattolici socialmente più sensibili vi si ambientarono bene e anche le intuizioni di Adriano vennero meglio apprezzate.

Col susseguirsi degli amministratori della Olivetti il rapporto con la Chiesa si giocò specialmente sul piano sociale e della difesa dei posti di lavoro; la dottrina sociale della Chiesa si era arricchita della Mater et Magistra nei ’61, della Pacem in Terris del ’63, e di tutto il ricco magistero sociale di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che nel ’90 visitò con grande attenzione la Olivetti.

Fino a Papa Francesco, che il 12 settembre del 2022 indicò alla Confindustria ricevuta in udienza la figura di Adriano Olivetti e le sue intuizioni.

Nel 2008, anno centenario della fondazione della Ditta, la chiesa locale aveva promosso un convegno dal titolo “Olivetti è ancora una sfida”, cui seguì la pubblicazione degli Atti nel febbraio 2010.