di Paolo e Vittorio Taviani
paese: Italia, 2012
genere: documentario-drammatico
interpreti: Cosimo Rega, Salvatore Striano,
Giovanni Arcuri, Antonio Frasca
durata: 1 ora e 16 minuti
giudizio: bello-capolavoro

 

Con la scomparsa di Vittorio Taviani il cinema italiano ha perso uno dei suoi maestri indiscussi, autore, insieme al fratello, di un sodalizio nato negli anni ’50. Alcune sale cinematografiche stanno riproponendo pellicole diventate classiche…

Il regista Fabio Cavalli è il referente artistico per il progetto del teatro nel carcere romano di Rebibbia, nella sezione Alta Sicurezza. La recitazione dei detenuti nella sua compagnia è diventata una forma artistica a sé, e contemporaneamente una nuova conoscenza del dolore e del bisogno espressivo dell’uomo. Fino qui la realtà.
Il film dei fratelli Taviani vuole raccontare proprio questo, con scelte di sceneggiatura e fotografia molto attente: l’opera (ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino) è straordinaria anche nell’uso sapiente del bianco e nero (insieme ad alcune sequenze a colori) e nell’inserimento dei diversi piani narrativi: da una parte il mondo del carcere con i suoi protagonisti, che man mano si allontanano dalla quotidianità per immedesimarsi nei personaggi chiamati a interpretare; dall’altra la finzione scenica. Gli attori sono proprio loro: conosciamo i detenuti per nome e per reato commesso, si tratta di droga, criminalità organizzata, omicidio… Qualcuno sta scontando l’ergastolo. I loro volti sono difficili da dimenticare: la tragedia da portare in scena è il “Giulio Cesare” di Shakespeare e gli autori scelgono il taglio del documentario per rappresentare il teatro al cinema, un esperimento inconsueto. Così veniamo a conoscenza dei piccoli passi per imparare tutto a memoria, Bruto, Cassio e Antonio rivivono per l’ennesima volta sullo schermo e Cesare muore ancora una volta.
Alla fine gli applausi del pubblico sono entusiasti… Poi le tende del palcoscenico si chiudono e si spegne la luce. E dopo? E’ ora di tornare in carcere.
L’ultima battuta di Cosimo Rega-Cassio non si può non trascrivere: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”.

Graziella Cortese