(Mario Berardi)

Nella politica italiana siamo tornati ai tempi delle convergenze parallele, come negli anni sessanta di Aldo Moro: di fronte alla crisi delle coalizioni e dei partiti, esplosi nell’elezione al Quirinale, il ministro dem Franceschini ha auspicato una svolta moderata della Lega, prefigurando una continuazione della linea di unità nazionale anche dopo le politiche del 2023.
I fatti di questi giorni rafforzano questa ipotesi.

Nel centro-sinistra siamo alla frantumazione del M5S: dapprima lo scontro durissimo, al limite della scissione, tra l’ex premier Conte e il ministro Di Maio; ora la sentenza del Tribunale di Napoli che ha azzerato l’elezione a capo politico dello stesso Conte, rimettendo tutti i poteri al “garante” Grillo. Una confusione che non è solo organizzativa: l’ex premier critico con Draghi e alla ricerca di una via autonoma e trasversale, Di Maio fedele all’alleanza con il Pd, Grillo uomo solo al potere. La crisi pentastellata sconvolge la strategia delle alleanze del segretario PD Letta: tutto il partito, dai moderati di Guerini alla sinistra di Orlando, gli chiede il ritorno al proporzionale, abbandonando il maggioritario e il bipolarismo dell’era Prodi. Un sondaggio della SWG ha accertato che il 40% degli elettori dem chiede di andare da soli alle politiche.

Sull’altro fronte Salvini ha dichiarato che il centro-destra si è sciolto come “neve al sole”. Tra il Carroccio e la Meloni è “lotta continua” (anche alla Regione Piemonte), mentre è in atto un avvicinamento tra Berlusconi e il segretario leghista: resta la divergenza europea, con Forza Italia che insiste per la linea del PPE, mentre il Carroccio continua a dividersi tra la Merkel e Marine Le Pen (ovvero tra il bianco e il nero).

Tra i due Poli frantumati la galassia centrista non eccelle: il leader di Azione Carlo Calenda, alleato con i Radicali, è durissimo con Renzi per le collaborazioni milionarie con l’Arabia Saudita, considerate come un grande “conflitto di interessi”; Toti e Brugnaro si dividono sui rapporti con il leader toscano, mentre l’UDC di Cesa e le formazioni di Lupi e Quagliarello premono su Berlusconi per un’intesa senza la destra della Meloni.

Questo panorama così confuso fornisce nuova luce sulle motivazioni che hanno indotto l’Assemblea di Montecitorio a rieleggere Mattarella con ripetute ovazioni per il suo discorso di insediamento: non solo per lo “scampato pericolo” della crisi irreversibile delle Istituzioni, ma insieme l’apprezzamento per la linea politico-culturale indicata, nel solco del cattolicesimo sociale che ha sempre ispirato l’inquilino del Quirinale, come parlamentare, ministro, giudice della Corte Costituzionale.

“La dignità del Paese”, sottolineata da Mattarella in 18 capitoli, non esprime unicamente un programma di fine legislatura per il Governo Draghi e le Camere, ma indica un più vasto e originale orizzonte: il contrasto alle povertà e la lotta alle disuguaglianze, la riforma urgente della Giustizia per superare i limiti correntizi della Magistratura, una politica estera di pace che eviti il ritorno alla “guerra fredda”, la lotta contro ogni forma di discriminazione e razzismo, la parità di genere (in particolare: perché la donna deve essere costretta a scegliere tra lavoro e maternità?), il rispetto agli anziani, l’attenzione alla disabilità, un nuovo diritto allo studio per i giovani, il contrasto alla “tratta” delle persone, l’attenzione ai migranti, la “guerra” alle mafie e alla criminalità organizzata…

La “garanzia” del Quirinale sul Parlamento e sul Governo dovrebbe consentire a Draghi, in particolare, di dedicarsi alla declinante pandemia e di affrontare l’esplosione del caro-vita. L’ex Presidente della BCE dovrà inoltre affrontare la nuova sfida sul patto di stabilità, respingendo la spinta rigorista del nuovo ministro tedesco delle Finanze, leader della linea ultra-liberista.

Governo e Parlamento da un lato, partiti dall’altro: possono camminare “paralleli”, senza mettere a rischio la stabilità del Paese, non vanificando il messaggio che viene dal Colle.