Il primo documento storico riguardante la presenza del cristianesimo a Ivrea è una lettera che sant’Eusebio, vescovo di Vercelli, scrisse dal suo esilio in Palestina. Essa inizia con queste parole: “Ai carissimi fratelli e ai desideratissimi presbiteri e alle sante comunità dei fedeli (sanctis in fide consistentibus plebibus) di Vercelli, Novara, Ivrea, come pure di Tortona, il vescovo Eusebio [augura] nel Signore l’eterna salvezza”.
Se nel 355, probabile data di questa lettera, a Ivrea già c’era una sancta plebs di cristiani, quando e come il vangelo era arrivato nel Canavese? Nel tentativo di risalire agli inizi del cristianesimo nel nostro territorio, merita prendere in considerazione due documenti della più antica tradizione locale. Secondo la Vita Gaudentii, “una composizione tarda (VIII-XI secolo), ma che conserva memorie di buona attendibilità storica” (Rita Lizzi), Gaudenzio era un giovane eporediese cresciuto nella fede cristiana. Avendo tentato inutilmente di convertire i suoi concittadini, si sarebbe trasferito prima a Novara, dove avrebbe collaborato con il prete Lorenzo, poi a Vercelli, dove Eusebio l’avrebbe coinvolto nella sua attività evangelizzatrice. Sarebbe stato sant’Ambrogio – secondo la Vita Gaudentii – a preconizzarlo vescovo di Novara; in realtà, a consacrarlo (nel 398 ca.) sarà il suo successore, Simpliciano.
Mentre documenta l’antico e stretto legame tra la chiesa di Ivrea e quelle di Vercelli e Novara, la Vita Gaudentii conferma che il cristianesimo aveva già messo radici a Ivrea. Il secondo documento è la Passio Acaunensium martyrum, nella quale il vescovo Eucherio di Lione, verso la metà del V secolo, attingendo alla tradizione locale, narra il martirio dei soldati cristiani della Legione tebea, avvenuto intorno al 298 ad Agaunum (oggi St. Maurice nel Vallese, Svizzera).
In una nuova edizione della Passio, che dipende da Paolo Orosio, i soldati cristiani della legione avevano rifiutato di compiere i sacrifici propiziatori in onore dell’imperatore. “Secondo una successiva Passio di origine torinese, del VI-VII secolo – scrive Franco Bolgiani – i tre santi martiri locali… sarebbero stati tre Tebei fuggiti da Agaunum e raggiunti dai sicari imperiali nella zona fra Torino e Ivrea…
Giunti a Torino, Avventore ed Ottavio sarebbero stati trucidati, mentre Solutore, più giovane e veloce, benché ferito, raggiunge Ivrea, si ripara in una cava di sabbia vicino alla Dora; tradito però da un giovane, è raggiunto dai persecutori e, condotto in una zona paludosa, è decapitato su un roccia… Una pia donna, Giuliana, con arti femminili, riesce a circuire i persecutori, li ubriaca, finché riesce a farsi dire dove si trovano i cadaveri degli altri due. Caricato il corpo di Solutore arriva di notte a Torino…, riunisce i corpi dei tre martiri, li seppellisce e costruisce in loro onore una cellula oratoria…”. Il giudizio dell’illustre studioso è perentorio: “Si è tentato più volte… di individuare un nucleo storico al fondo di quello che appare, anche troppo evidentemente, un breve romanzo edificante…” (La leggenda della legione tebea, in S. Roda (a cura), Storia di Torino, vol. I, p. 333). Occorre però osservare che a Torino il culto dei martiri Avventore, Ottavio e Solutore era già tradizionale verso la fine del IV secolo, come dimostrano alcune omelie di san Massimo.
Nel sito della Diocesi di Ivrea si legge: “Rimandano a questi primi tempi le leggende di fondazione dei culti a Besso, Tegolo e Solutore, presunti martiri tebei e compatroni di Ivrea”. Sono comunque significativi due aspetti del racconto: i martiri erano soldati dell’esercito romano; la loro fuga sarebbe avvenuta lungo la via delle Gallie.
Questi ultimi rilievi ci orientano verso le grandi vie dell’Impero romano, che collegavano la romana Eporedia con Vercelli e Milano e, ultimamente, con Roma, da dove appunto proveniva sant’Eusebio.
La colonia di Eporedia era stata fondata nel 100 a.C. nel territorio dei Salassi, che i Romani riuscirono a sottomettere definitivamente soltanto nel 25 d.C. Di origine celtica, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, i Salassi sapevano fabbricare armi e strumenti grazie al ferro estratto dalle miniere. La loro religiosità si esprimeva in usanze cultuali rivolte alle forze della natura: dèi della montagna, delle acque, delle foreste, del sole. Come Augusta Taurinorum e Augusta Praetoria, anche Eporedia aveva la funzione di baluardo militare sulle vie dirette ai valichi alpini. Gli abitanti erano cittadini romani, con tanto di magistrati e funzionari. Oltre a questi e ai militari, vi erano mercanti e artigiani, senza contare la servitù.
Nell’agro, tolto in buona parte agli antichi proprietari, vennero sistemati i coloni (circa tremila), veterani dell’esercito della più diversa provenienza, a ciascuno dei quali fu assegnato un podere. Stele e lapidi funerarie ci tramandano nomi e titoli di numerosi cittadini dell’Eporedia romana. Quanto alla pratica religiosa, i ritrovamenti archeologici documentano il culto delle antiche divinità (Giove, Giunone, Minerva, Mercurio, Diana), come pure quello dell’imperatore: espressione concreta, l’uno e l’altro, di fedeltà all’impero di Roma. In questo contesto, comune peraltro a tutte le province, si diffusero a poco a poco i culti orientali – quelli per es. di Iside e di Serapide, del Sol invictus, ecc. – e tra essi il cristianesimo.
Da dove il vangelo fu portato a Ivrea? Sono state date diverse risposte: dalla lontana Aquileia, da Milano, da Vercelli, dalla costa ligure… Presupposto comune a tutte le ipotesi è il poderoso sistema delle vie romane: quelle consolari, come la Postumia, che attraversava l’intera pianura padana, e altre minori, come la via pubblica che da Milano conduceva a Vercelli e a Ivrea. La fede cristiana si propagò nell’Impero romano non soltanto mediante la predicazione, ma ancor più grazie ai contatti personali e per l’attrattiva che essa esercitava su ogni ceto sociale. A Ivrea e nel Canavese, secondo Lellia Cracco e Rita Lizzi, l’adesione alla fede cristiana fu “un fenomeno spontaneo e privato, per nulla frutto di attività missionaria organizzata” (in: Eporedia. Ventun secoli di storia, p. 48).
Ciò che attirava al cristianesimo era la sua elevatezza morale e lo stile di vita dei cristiani, l’amore vissuto tra i credenti, l’aiuto ai poveri e la beneficenza. I motivi che spinsero molti ad abbracciare le fede – spiega Gustave Bardy –preferendo il cristianesimo ad altre proposte di carattere religioso, erano il desiderio della verità, la liberazione dalla fatalità, dalla servitù interiore del peccato e dalla paura della morte, l’aspirazione a una vita pura (La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Milano 1975).
Tra il pullulare di antiche e nuove credenze – aggiunge Andrea M. Erba – “il cristianesimo si è presentato al mondo come religione interiore, come concezione totale della vita, come una impostazione pacifica e rivoluzionaria insieme dell’individuo e della società” (Storia della Chiesa, Torino 1989, I, p. 67).
È del tutto probabile che, a Ivrea e nel suo territorio, la fede cristiana sia stata portata da singole persone di ogni ceto sociale provenienti dalla capitale oppure da Vercelli e da Milano. I trasferimenti e i viaggi a motivo dell’impiego pubblico, dell’attività lavorativa e del commercio favorivano i contatti, lo scambio di esperienze e la trasmissione delle proprie convinzioni religiose. Se e quando alcuni cristiani, cittadini romani o semplici servi, trasferitisi a Eporedia, vi incontrarono dei compagni di fede, è ovvio immaginare che presero a frequentarsi e a riunirsi in una casa privata, una domus ecclesiae, come avveniva nei primi secoli. Ancor prima che Eusebio estendesse le sue attenzioni alla ecclesia di Ivrea, è probabile che da Vercelli vi si recasse qualche presbitero per celebrare l’Eucaristia e per preparare i catecumeni al battesimo.
I primi semi portati a Eporedia a partire dal II secolo, se non prima ancora, germogliarono e crebbero fino a diventare la plebs che Eusebio salutò dalla lontana Scitopoli. Segno, questo, che la sua attività evangelizzatrice e pastorale si era estesa fin dall’inizio a Ivrea e al suo territorio. Una vera e propria ecclesia, con tanto di episcopus circondato da presbiteri, diaconi, lettori e accoliti, pare sia stata istituita solamente alla fine del IV secolo, durante o poco dopo l’episcopato di sant’Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397. Il primo nome a noi noto di un vescovo di Ivrea è comunque quello di Eulogio, che a Milano nel 451 prese parte a un sinodo provinciale di vescovi.
Dei suoi successori il primo di cui conosciamo il nome è Innocentius, vescovo alla fine del V o agli inizi del VI secolo. Passano quasi due secoli prima di conoscere un altro nome di vescovo eporediese: Desiderio, che nel 680, insieme ai vescovi suffraganei della diocesi di Milano, prese parte a un sinodo indetto a Roma da papa Agatone. Siamo ormai in età longobarda.