La scorsa settimana ho avuto la gioia di partecipare alla processione del Corpus Domini, presieduta da Papa Leone XIV. Per lavoro ho avuto modo di seguirla dall’alto, da un terrazzo che offriva una vista straordinaria sul percorso. Da lì, lo sguardo poteva abbracciare tutto: la moltitudine silenziosa, la luce delle candele, la bellezza armoniosa di un popolo raccolto attorno allo stesso Cristo.

Quello che più mi ha colpito, più della scenografia imponente, è stata la realtà che stava al centro di tutto: l’Eucaristia. Tutti sappiamo – almeno sul piano dottrinale – che cosa accade durante la Messa. Il sacerdote prende un simbolo, il pane, lo consacra, e quel simbolo diventa realtà. Diventa Cristo. Non lo rappresenta, lo è. È la presenza viva, concreta, tangibile del Signore in mezzo a noi. Da simbolo a realtà.

Eppure, ecco il paradosso: spesso facciamo il percorso inverso. La realtà torna simbolo. Succede a livello culturale, teologico, sociale… ma anche nel nostro cuore. È più facile – molto più comodo – pensare che sia solo un simbolo. Un ricordo, un segno, una metafora di qualcosa di spirituale. Perché se è un simbolo, posso osservarlo da lontano. Se è reale, mi interpella. Mi obbliga a fare i conti con me stesso. Perché se davvero credo che lì c’è Cristo, allora niente può più restare uguale.

È una presa di coscienza radicale, che ti cambia il modo di vedere il mondo, le persone, il tempo, le priorità. Una presenza così totale, così assoluta, non può che provocare una conversione. Eventi come quello del Corpus Domini ci rimettono davanti all’evidenza che c’è un popolo che ancora crede, che si inginocchia, che adora. Una comunità che riconosce in quel “pezzo di pane” non un oggetto, ma una Persona. Cristo. Vivo.

E allora sì, possiamo dirlo: c’è ancora speranza. Perché nonostante i nostri tentativi di ridurre Dio a un’idea, Lui continua a offrirsi come realtà. Reale. Presente. Concreta. Sta a noi decidere se accoglierlo davvero o continuare a fuggire dietro un simbolo.