(Fabrizio Dassano)

IVREA – Prendiamo un pesante volumone conservato nella Biblioteca Civica “Costantino Nigra” di Ivrea: è l’annata 1940 del Risveglio Popolare e all’interno contiene i numeri rilegati di quell’anno infausto. Che le nubi nere della nuova guerra fossero ben stagliate all’orizzonte lo si evince sfogliando quella carta ingiallita dal tempo che ci restituisce tutta la preoccupazione del periodo nei titoli e nei contenuti. Sara la guerra?

Nel numero del 4 gennaio tra le varie notizie, ne compare una che ci dimostra che il vegetarianesimo non è un’invenzione del contemporaneo. Con il titolo “Le penitenze della Chiesa non danneggiano la salute” l’articolo narra infatti che i certosini, ordine monastico fondato da San Bruno nel XII secolo, non mangiano la carne e mai vollero mangiarla. L’unica volta che si ribellarono nel ‘300 a Papa Benedetto XII fu proprio per la carne. Il pontefice, considerata l’età veneranda di quei monaci nelle loro certose, emanò un breve per abolire il vegetarianesimo, al fine di dare ai confratelli anziani più forze dall’alimentazione animale. Quattro certosini, le cui età sommate fornivano il numero 375 anni, partirono da 4 certose diverse e pellegrinando, raggiunsero la sede del Papa (che allora era ad Avignone), portando loro stessi come prova inconfutabile di salute. Il Papa dovette abolire il breve. Il nostro giornale ricordava che “come allora anche adesso, l’astinenza dalle carni, i digiuni e altre penitenze che la Chiesa comanda, anziché nuocere sono di giovamento alla sanità del corpo e dona un più libero volo allo spirito nelle opere buone”.

Nel numero di giovedì 11 aprile 1940 c’è un interessante articolo sull’Ente Nazionale Fascista per la protezione degli Animali, costituito con legge 11 aprile 1938, n. 112 che aveva – tra i vari compiti – anche quello di vigilare sull’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e locali relativi alla protezione degli animali. Anche a Ivrea vigilava la commissione provinciale che annunciava “che per non incorrere nelle gravi sanzioni previste dalle vigenti disposizioni sulla protezione degli animali, elenchiamo qui di seguito quei casi che più da vicino interessano gli agricoltori…”. Il primo punto riguardava la spiumatura delle oche, ammessa “purché fatta da mano esperta e limitatamente all’addome ed al torace, quando il piumino sia giunto a completa maturazione e cada facilmente”; “assolutamente vietato” invece lo strappo delle piume non considerate piumino, o peggio delle altre parti del corpo; assolutamente vietato oltrepassare la spiumatura e cadere nel grave reato di “spennacchiamento”.

Il 2° punto dell’articolo esaminava i “cani da guardia a catena”. Il metodo migliore è quello della catena fissata con un’anello ad un filo teso, lungo tanto da permettere la libertà di corsa. Poiché sono abbastanza anziano, me li ricordo benissimo nelle aie degli Anni ’70 del secolo scorso: li avevo battezzati i “cani filobus”. Ma torniamo ai dettami: il guinzaglio deve avere un’opportuna lunghezza, mai inferiore ai due metri. Il cane dovrà essere regolarmente nutrito e fornito di un’apposita cuccia asciutta, fornita di paglia e non dovrà mai mancare una ciotola d’acqua pulita. Il 3° punto riguardava la questione della “legatura e trasporto del pollame”: vietato legare “a mazzo” per le zampe numerosi capi; vietati lo spago, la cordicella di fibre vegetali o peggio con la corteccia di salice o gelso, che disseccandosi creavano gravi danni alle zampe dei ruspanti (solo le fettuccie larghe erano ammesse). Non si potevano poi trasportarli con le teste in basso, ma in apposite ceste.

Il 4° e ultimo punto riguardava la macellazione dei suini ad uso familiare: “succede molto spesso che gli agricoltori non si curano di rispettare le disposizioni in materia, ponendosi in tal modo nelle condizioni di soggiacere a gravi sanzioni penali”. Il luogo dell’abbattimento doveva essere controllato dal Veterinario Comunale e non all’aperto, in presenza del pubblico, “ciò è tassativamente vietato in quanto contrasta con le norme di moralità e di educazione, costante preoccupazione del Regime.” Quindi l’uccisione doveva effettuarsi con i mezzi – non meglio specificati – più idonei e da persone esperte ed assolutamente era vietato l’uso del coltello, “come era comunemente nei tempi passati”.

Invece da Tonengo apparve la notizia di uno scampato illustre a il naufragio della motonave “Orazio” del 21 gennaio 1940. Si trattava di padre Luigi Frassato, tornato a Tonengo l’estate del 1939 per un periodo di riposo dopo 30 anni di missione a Caracas, in Venezuela in mezzo agli Indios. Il 19 gennaio si era imbarcato a Genova sulla “Orazio”, nave della Società Italia di Navigazione con una stazza lorda di quasi 12mila tonnellate ed una velocità di 15 nodi. Partita per il Sud Pacifico, era al comando del Capitano Michele Schiano quando, giunta a 35  miglia al largo di Tolone, divampò un incendio improvviso nella sala-macchine. L’incendio divise in due la nave e risultò indomabile, i passeggeri atterriti. Le fiamme si estesero ben presto a tutta la nave che fu poi abbandonata.

All’appello finale mancarono 48 passeggeri dei 423 imbarcati a Genova e 60 marittimi  su 210 facenti parte dell’equipaggio. Erano le 05.12 del 21 gennaio 1940 quando dalla sala radio della nave partì l’S.O.S. via radio: quattro navi militari francesi della base di Tolone risposero subito; poi arrivò sul posto anche il grande e lussuoso translatantico italiano “Conte Biancamano” che salvò 316 persone, il “Colombo” che ne recuperò 163 ed infine il piroscafo francese “Ville de Ajaccio” che ne prese a bordo 46.

Non furono mai accertate le cause anche se si parlò di un attentato: la nave italiana portava anche famiglie di ebrei tedeschi, austriaci e praghesi in fuga dal III Reich di Adolf Hitler che stavano affrontando quello che doveva essere il loro lungo viaggio della salvezza. I sopravvissuti tornarono a Genova e andarono a pregare sulla tomba di Guglielmo Marconi, l’inventore della trasmissione radio. Padre Luigi Frassato era nuovamente atteso a Tonengo dove i suoi compaesani l’attendevano per udire dal suo labbro “il vivo racconto del pericolo e per rendere a Dio commossi ringraziamenti”.