(di Fabrizio Dassano)

Ebbene si. Quest’anno ho disertato il Carnevale! Ho saltato la barricata e sono tornato in Slovenia a cercare notizie per un lavoro che ho in mente sui cimiteri austroungarici della guerra 1915-1918. Quelli che stanno ancora oggi nelle retrovie della prima linea austroungarica che fermava gli italiani sull’Hermada sbarrando l’avanzata verso Trieste, occupata dopo lo sfaldamento del regio-imperiale esercito austroungarico. Ce ne sono tanti altri ormai sommersi dalla vegetazione del Carso di Komeno, grossomodo tra Sesana e l’Isonzo. Un terreno strappato ai sassi dal colore scuro che dà un vino fantastico, il Teran. Ogni casa di pietra ha il suo orto e tutt’intorno vitigno o pascoli. Si pranza e si cena nelle Gostilne dei villaggi: menù semplice, contadino.

Alla Gostilna Jota di Gorjansko discutiamo con  l’ostessa che parla italiano. Alla fine ci manda da altre persone e tutte parlano l’italiano e si rivelano preziose memorie storiche viventi. L’inglese lo si parla solo con una giovane in un centro d’informazione turistica, per cui siamo i “cacciatori di cimiteri abbandonati”.

Ungheresi, austriaci, romeni, sono le nazionalità sepolte al fondo di doline amene. Obelischi e lapidi reggimentali recitano un sinistro ritornello: “Seinene fur kaiser und vaterland gefallenen kameraden das regiment” (“Ai camerati caduti per l’imperatore e la patria, il loro reggimento”) e tante croci allineate davanti, croci di cemento con un scheletro fatto col filo spinato delle trincee o blocchi di cemento stampato con una croce in rilievo. Tante etichette su lamierini zincati incisi con la penna ad acido con nome e cognome, reggimento (91°, 43°, 16°, 61°, 47°, 87°, 39° e molti altri sono i reggimenti imperiali), data di morte, età ogni tanto: sono tutti ventenni-trentenni. In pochi giorni ritroviamo cimiteri che contengono complessivamente 20mila morti. Ogni paesino di questo Carso dietro le linee “nemiche” era trasformato in ospedale da campo.

Tutti ci parlano e poi concludono sempre con il solito ritornello: “Siete italiani?”. Nel loro sguardo si vede che ci prendono un po’ per idioti; ogni paese ha il suo monumento con la stella rossa che ricorda la lotta contro i fascisti italiani. Ma poi ci offrono un bicchiere di Teran in case semplici, ci offrono di fotografare i loro documenti di quella guerra che portò la cultura italiana imposta dal fascismo. A Skirbina na krasu chiediamo di un cimitero ad un signore altissimo con i baffi neri. Ci accompagna in un bosco dietro la chiesa e scendiamo tra i rovi nel fondo di una dolina: c’è solo più una croce con scritto “1916-1917”.

Poi ci fa entrare in casa. Parla poche parole d’italiano. In cucina c’è la moglie paralitica su una sedia a rotelle che ci invita ad entrare. Da un cassetto saltano fuori fotografie d’epoca. C’è anche un documento che riguarda un suo parente: una condanna a tre mesi di carcere inflitta dalla Regia Prefettura di Comeno perché trovato a cantare una canzone proibita, in lingua slava insieme ad altri due amici. Siamo in territori che furono italiani dal 1919 al 1945. In altri posti sempre lo stesso trattamento: case e ricordi aperti. Ci chiedono cosa vogliamo fare (“Forse un libro…”). Mozetic Voisvd, un capellone che ci accompagna in stampella al cimitero, ci chiede solo un favore: “Mi raccomando, non scrivete bugie!”. Siamo bugiardi è vero, perché vediamo il male nel diverso, in quello che non parla la nostra lingua. Non ha le nostre abitudini. Nel tempo siamo riusciti ad essere razzisti anche nel cuore d’Europa.

A Sdreniza, da un’altra parte sull’Isonzo ci avevano raccontato del giovane prete del villaggio pestato a morte dei fascisti per la liturgia in lingua slovena. Fantasmi del passato? Non direi, ascoltando le parole di certi nostri attuali politici.

Eppure, davanti ad un suo bicchiere di vino Teran, anche un contadino sloveno uscito dall’incubo di Tito, conosce l’anima della parola e perde ancora tempo con un italiano neanche troppo stentato a parlare di vecchie storie.