La storia militare del Piemonte preunitario vanta una tradizione costituita da tre lavori storiografici organici importanti: quello scritto in francese dal nobile Alessandro Saluzzo di Monesiglio dal titolo: “Histoire militaire du Piémont” che vinse nel 1812, come dissertazione, il concorso indetto dall’Accademia delle Scienze di Torino, la “Storia militare del Piemonte in continuazione di quella del Saluzzo cioè dalla pace d’Aquisgrana sino ai dì nostri” pubblicata a Torino nel biennio 1854-55 presso Degiorgis e di cui fu pubblicata nel 1856-57 una traduzione in tedesco a Lipsia a cura di un capitano dell’esercito prussiano, August Riese.

Nel Novecento, la terza è l’opera di Nicola Brancaccio: “L’esercito del vecchio Piemonte. Sunti storici dei principali corpi (1560-1859)” edito dall’Ufficio storico dell’Esercito nel 1922 e da altre opere similari che rappresentano il risultato del riordino delle carte militari preunitarie dell’Archivio di Stato di Torino.

Se cronologicamente la storia di Pinelli era la continuazione di quella del colonnello Saluzzo di Monesiglio, le affinità cessavano qui. L’aristocratico Saluzzo aveva usato la lingua francese secondo la rotta della restaurazione sabauda e i princìpi di uno stato regionale saldamente legato alla potenza della Francia. Una storia militare e “nazionale” che coincideva con quella della famiglia Savoia. La prospettiva ideologica di Pinelli creava invece una profonda frattura: voleva rendere irreversibili le evoluzioni nate con la “Primavera dei popoli” nel marzo 1848 e rivisitare la storia militare recente in una prospettiva liberal-nazionale.

Per lui la nuova classe militare piemontese poteva e doveva riconoscersi intrecciando strettamente i valori professionali a quelli politici, le virtù tradizionali quali l’onore, il valore e la lealtà, con i requisiti necessari a un quadro nazionale, cioè a un competente professionista di solide conoscenze militari. Il suo messaggio ideologico di carattere nazional-patriottico era dedicato “alla gioventù italiana”. Ribadiva nella prefazione che “Io scrissi per i giovani italiani, per gli amici, per i fratelli”.

Il filo conduttore era il “patrio risorgimento”. L’Italia doveva finalmente diventare una nazione, se “vuol essere libera contro le irte falangi del dispotismo” dove la recente storia militare subalpina non era altro che la storia dell’epifania di una coscienza nazionale. Se Pinelli riconosceva ai moti del 1821 “un debole barlume di nazionalità” il 1848 legittimava il “sacro diritto della nazionalità”. Con lui terminava (senza sparire), la narrazione della storia militare del Piemonte in chiave sabaudista: “questa che io scrivo è storia di armi patrie e non di dinastia” e protestava contro quel “gretto sentimento di semi-patrio amore che circoscrive l’affetto di tanti piemontesi alle provincie rette dalla Casa di Savoia”.

Si professava “suddito riverente” sottolineando che non voleva dire essere “schiavo” di Vittorio Emanuele II. La fedeltà alla corona e il nazionalismo potevano rafforzarsi a vicenda nel momento e nella misura in cui i Savoia adottavano una politica nazionale “italiana”.

Oggi Ferdinando Pinelli è ancora ricordato a Cuorgnè con la piazza omonima e fino alla seconda guerra mondiale, con una caserma a lui intitolata che venne incendiata il 1° maggio 1945 e poi demolita. Egli nacque a Roma da Ludovico Maria e Angela Carelli, terzo e ultimogenito maschio. Il padre, magistrato nativo di Cuorgnè, con l’annessione dello Stato Pontificio all’Impero francese nel 1809, era stato nominato procuratore presso la Corte d’appello a Roma. La madre apparteneva ad una famiglia di magistrati piemontesi. I due fratelli, Pietro Giovanni Alessandro e Pier Dionigi seguirono il padre nella professione legale.

Della figura di Federico si è occupato Pietro del Negro, Professore emerito di Storia militare dell’Università di Padova. Pinelli oltre alla professione militare scrisse diverse opere nel dibattito sulla riforma di quell’esercito “regionale” che si apprestava, tra numerose sconfitte sul campo, all’unificazione italiana. Dal 1826 al 1831 fu allievo al Collegio militare di Genova dove ricevette il brevetto di sottotenente nella brigata “Casale”. Il titolo comitale ottenuto per merito professionale dal padre nel 1828 e trasmissibile ai figli maschi, Ferdinando Pinelli non lo utilizzò mai, per via della sua anima avversa ai privilegi di classe. La sua carriera nella fanteria, arma priva di nobili, non permetteva rapide carriere e qui maturò l’idea del militare “professionista della guerra”.

I suoi modelli furono gli ufficiali napoleonici di estrazione borghese, e dimostrò scarsa considerazione per l’aristocrazia che era poco amante degli studi e aggrappata ai propri privilegi e che entrava di diritto nell’esercito con i propri “cadetti” per garantirsi “il posto fisso”. Aristocrazia che aveva afflitto l’esercito di nepotismo sfrenato, gonfiato i bilanci con l’accumulo di cariche e stipendi, creando un abnorme quanto inefficiente Stato Maggiore per un piccolo esercito che si era battuto con coraggio per tre anni prima di arrendersi alla Francia repubblicana. Stesso coraggio contro l’Austria nel 1848-49, ma con la disastrosa prova sul campo degli alti gradi. Ferdinando sul campo ci era stato come Capitano aiutante maggiore nel 16° reggimento di fanteria nel ‘48 distinguendosi in molti combattimenti e guadagnandosi una medaglia al valor militare. Nel marzo 1849 si riaccese la guerra che culminò con la sconfitta piemontese di Novara. Capitano nel 9º reggimento, fu catturato a Mortara.

La svolta politica fu quella della “Primavera dei popoli” del marzo 1848 che il Piemonte visse con la concessione dello Statuto Albertino e la trasformazione del Regno di Sardegna da regime assolutista e reazionario in regime monarchico-costituzionale protagonista del Risorgimento. Svolta che favorì i fratelli Pinelli: nel 1850 Alessandro divenne presidente di classe della Corte d’appello di Torino e fu nominato senatore. Pier Dionigi, un giobertiano approdato a posizioni conservatrici, fu deputato di Cuorgné dal 1848, ministro dell’Interno nel 1848 e nel 1849. Fu poi presidente della Camera dei deputati dal 1849 al 22 aprile 1852, giorno della sua morte.

Ferdinando intervenne nel dibattito sulla riforma dell’esercito piemontese, che si aprì all’indomani delle sconfitte piemontesi del 1848-49. Pubblicò due opuscoli “Alcuni cenni sull’infanteria piemontese” e “Progetto di un nuovo ordinamento dell’armata con alcune osservazioni sull’attuale teoria della fanteria”, dove difendeva la fanteria, opponendosi al comune pensiero di un suo drastico ridimensionamento. Alla fine del 1849 era stata istituita la Scuola normale di fanteria di Torino che dal 1850 divenne Scuola militare con sede a Ivrea (oggi a Modena) e Pinelli, docente a Ivrea, nel 1851 diede alle stampe il manuale, “Elementi di tattica”, presso la tipografia Curbis.

Promosso maggiore, con la morte del fratello Pier Dionigi, il collegio di Cuorgnè lo elesse deputato. Seppur in aspettativa, fu comandante della II legione della Guardia Nazionale di Torino e commissario di leva. Fu a Malta nella guerra di Crimea e, nel 1859, come tenente colonnello fu inviato a Bologna insorta contro il papa, diventando ministro della Guerra nel governo provvisorio delle Romagne. Colonnello nel 1860, prese parte alla campagna delle Marche e dell’Umbria.

Conquistò Ancona e guidò la repressione del “brigantaggio” nelle Marche e nell’Abruzzo, infierendo contro le popolazioni locali. Durante l’assedio della fortezza di Civitella del Tronto strenuamente difesa dall’esercito del Regno delle Due Sicilie, un suo proclama, in cui definiva il papa Pio IX “Vicario non di Cristo, ma di Satana” e “sacerdotal vampiro” gli costò la destituzione. Pochi mesi dopo fu destinato alla lotta contro il “brigantaggio”. Nel 1861 fu rieletto deputato. L’anno successivo ebbe il comando di una divisione in Sicilia e dal 1863 fu comandante della divisione militare di Bologna. Pubblicò ancora “Questioni militari”, e dopo esser stato promosso luogotenente generale, morì a Bologna il 5 marzo 1865.