(Michele Curnis)

Nel 1898 Giuseppe Giacosa fu invitato a presentare una conferenza su Dante presso il comitato milanese della Società Dantesca Italiana, e scelse per l’occasione un tema di carattere strutturale: “La luce nella Divina Commedia”. Il testo della conferenza fu pubblicato quello stesso anno nel volume collettivo Con Dante e per Dante, e poi ristampato nella raccolta postuma di Conferenze e Discorsi dello stesso Giacosa, con una prefazione di Innocenzo Cappa (Cogliati, Milano 1909: il drammaturgo era morto nella casa natale di Colleretto Parella il 1° settembre 1906).

Giacosa non fu uno studioso di Dante e nella sua opera saggistica le menzioni del poeta non sono numerose; il testo della conferenza rivela tuttavia un lettore di lunga data, oltre che un esperto conoscitore della Commedia. Nel 1898 egli era uno dei più celebri scrittori e drammaturghi italiani: due anni prima era stata rappresentata al Teatro Regio di Torino La bohème, su libretto suo e di Luigi Illica, per la musica di Giacomo Puccini. La stessa collaborazione avrebbe prodotto nel 1900 Tosca per il Teatro Costanzi di Roma; e quello stesso anno sarebbe andata in scena al Teatro Manzoni di Milano Come le foglie, forse la commedia più emblematica di tutta la produzione di Giacosa.

L’argomento scelto per la conferenza è molto complesso: la luce non è riducibile a un semplice “tema” come tanti altri all’interno della Com-media, anche perché di tutta la terza cantica è l’essenza costitutiva. D’altro canto, dopo una rassegna abbastanza rapida sulle occorrenze della luce nelle prime due, la conferenza si concentra decisamente sul Paradiso: «qui la scena prende bensì diversi nomi, chiamandosi cielo della Luna, di Mercurio, di Venere, di Giove e via dicendo, ma rimane di continuo la stessa. E a descriverla basta una sola parola: “luce”».

Ogni ricerca, anche la più accademica e apparentemente lontana dalle urgenze della società del suo autore, è in realtà figlia del proprio tempo: nel caso di Giacosa (e non solo suo) si può accostare l’interesse per la luce nella poesia di Dante alla straordinaria popolarità che proprio la luce, come fenomeno fisico, aveva acquisito grazie alle tecniche fotografiche. Risalgono agli anni Settanta dell’Ottocento la scoperta del principio di sensibilizzazione cromatica delle lastre fotografiche e le conseguenti applicazioni pratiche, che migliorarono notevolmente la qualità della fotografia.

Non stupisce affatto che la scenografia del Paradiso e la sua rappresentazione mentale acquisiscano un interesse nuovo in una società in cui diventa possibile “scrivere per mezzo della luce”: «nel Paradiso la luce appartiene alla essenza stessa degli spazi e degli spiriti che vi si aggirano, così che costituisce insieme il fondo della scena, la forma visibile dei personaggi e molte volte il modo del loro linguaggio». L’autore si spinge ad affermare che nella progressione narrativa del Paradiso «ogni nuova dolcezza di concetti, ogni volo, ogni intreccio, ogni danza di sostanze celestiali altro non sono che modi della luce».

Anche per ravvivare dialetticamente il ritmo interno della conferenza, nella seconda parte Giacosa ritaglia uno spazio per una polemica accademica di pochi anni prima. Nel 1887 l’editore torinese Loescher aveva infatti pubblicato nella traduzione di Nicola Zingarelli i due volumi della Storia della letteratura italiana del berlinese Adolf Gaspary (1849-1892), in cui si sollevavano alcuni dubbi sull’efficacia della rappresentazione artistica del Paradiso. Il filologo tedesco affermava che Dante aveva saputo coniare «immagini magnifiche, ma inefficaci per lo scopo loro proprio». Gaspary non poneva affatto in dubbio la qualità poetica della Commedia, e tanto meno i suoi intenti teologici o morali; collocando la questione nella poetica del XIV secolo, egli s’interrogava piuttosto su come si potesse rappresentare per mezzo del linguaggio artistico un regno immateriale.

La risposta fu che Dante, per esprimere la luce e le armonie celestiali, in realtà era stato costretto a ricorrere sempre e comunque a luminosità e suoni terrestri. Il problema è reale, ed è il poeta stesso a condividerlo con i suoi lettori sin dal I canto del Paradiso, dunque nelle parole di Gaspary non c’è nessuna denuncia scandalosa, ma – come è facile immaginare – i dantisti italiani si sentirono in dovere di replicare, con maggiore o minore veemenza, per vendicare Dante dalle presunte offese di un critico tedesco. Anche Giacosa volle inserirsi in questa vicenda, cogliendo lo spunto per concludere la sua conferenza.

Va detto che lo scrittore canavesano rispose agli argomenti di Gaspary con sobrietà (forse aveva appreso della tragica fine del filologo romanzo, che si era tolto la vita pochi anni prima) e, quel che più importa, con buoni argomenti critici. Giacosa ribatte che non bisogna confondere l’essenza con la quantità dei fenomeni. Applicato al Paradiso, questo significa che Dante non pretende creare dal nulla un’entità nuova (come potrebbe essere la luce divina del cielo), ma amplifica e moltiplica indefinitamente la realtà fenomenica, fino a trasformarla in quella che chiama «l’ombra del beato regno» (Par. I 23). Giacosa conclude pertanto che «alle menti agili la limitazione sensibile della quantità è un eccitamento a pensare una quantità maggiore», e che quindi Dante «lascia che il prodigio si compia in noi, noi cooperanti. La visione paradisiaca, quale esce dalla lettura della terza cantica, procede in parte direttamente dalle singole artistiche rappresentazioni ed in parte dal moto immaginativo che le successive rappresentazioni inducono ed accelerano nella nostra mente».

Giacosa, insomma, insieme ad alcuni dantisti del suo tempo, anticipò una ricerca che qualche decennio più tardi sarebbe stata feracemente ripresa dal teologo e dantista Romano Guardini, che nella silloge Paesaggio dell’eternità (1958) dedicò un capitolo al Fenomeno della luce nella Divina Commedia. Se un limite si può additare all’indagine del drammaturgo canavesano è nell’impostazione assai poco filosofica con cui tratta l’argomento della luce, in particolare nel Paradiso.

Chi ne legga con attenzione i primi canti, infatti, si rende conto che Dante istituisce un principio assoluto raffigurabile in termini di gradazione e derivazione, esprimibile soprattutto per mezzo del lessico della luminosità. Tale principio, alquanto simile all’unità divina della dottrina neoplatonica, si espande per gradi di potenza (e relativa luce) in ogni punto dell’universo. Per comprendere la funzione e l’essenza della luce in Dante, occorre quindi partire dal concetto di uno e assoluto, coincidente con il Dio cristiano, che in sé racchiude e da sé libera ogni emanazione luminosa. Inoltre, Giacosa non dice nulla sul paradosso dell’affermazione «Trasumanar significar per verba | non si poria» (Par. I 70-71), che Dante reitera in quasi tutti i canti del Paradiso, al fine di ribadire l’indicibilità di quel regno. Alla fine, però, il Paradiso è scritto, completo e perfetto, a dispetto di tutte le anteriori proteste.

Evidentemente, Proust e la concezione dell’opera letteraria come un farsi progressivo, anche attraverso la negazione dell’esprimibile o dello scrivibile, erano ancora molto lontani. Da cultore dell’arte e attento analista dei mezzi mimetici (è il drammaturgo che a teatro riproduce la vita reale), Giacosa prende avvio dagli elementi concreti e terreni, per osservarne la progressiva crescita quantitativa (questa parola ricorre spesso nelle sue argomentazioni), fino a quando si trasformano in espressione dell’ultraterreno. Secondo le parole che suggellano la conferenza e vertono ancora una volta sugli effetti della tecnica poetica: «Il maggior prodigio dell’arte consiste nel rendere l’animo accessibile al prodigioso».