IL MEDICO FILIPPO CIANTIA RICORDA MARIA BONINO E MATTHEW LUKWIYA

Il nostro Filippo Ciantia, ormai conosciuto per la sua rubrica settimanale, ha vissuto trent’anni in Africa, quasi sempre in Uganda che conosce profondamente, e dove è lui stesso conosciuto, amato e rispettato per la sua instancabile opera al servizio dei più poveri. Il nord Uganda gli è famigliare per essere stato medico e poi dirigente sia di una ONG italiana che di alcuni ospedali locali di cui ha raccontato nella sua rubrica e nel suo libro uscito da poco in libreria. Ha avuto la fortuna di conoscere e lavorare con persone che per la vita degli altri hanno dato la loro. In occasione della morte della preside Gabriella Orioli avvenuta a Biella la settimana scorsa, Filippo Ciantia ricorda nelle righe che seguono, la figlia della preside, Maria Bonino, pediatra, morta in Angola nel marzo 2005 dopo aver contratto il virus di Marburg mentre curava i pazienti affetti dallo stesso virus, ma passata anche lei, anni prima, da Gulu. E poi Ciantia ha conosciuto e ci racconta del dottor Matthew che a Gulu contrasse l’Ebola e morì due mesi prima la fine dell’epidemia. Maria Bonino aveva conosciuto il dottor Matthew; cinque anni dopo di lui anche lei dette la sua vita per salvarne tante altre.

Sono arrivate, finalmente, pioggia e neve. Con esse disagi, anche gravi, ma anche quell’acqua che tanto serve al nostro ambiente sempre più arido e imprevedibile. Benedetta l’acqua, sorella preziosa e pura, del cui valore ci accorgiamo solo quando manca.

Nel nord Uganda c’è un luogo speciale, ora una città importante, Gulu. Il nome viene da “agulu” il contenitore dove le popolazioni indigene raccoglievano l’acqua, così preziosa in Africa. Infatti, il nord del paese è molto arido, rispetto al sud, dove si trovano le foreste tropicali, caratterizzato dalla “falce fertile” che incorona il lago Vittoria: lussureggiante paesaggio di coltivazioni di cereali e di piantagioni di thè e caffè.

Gulu è veramente un luogo speciale non solo per le piogge abbondanti, la ricchezza d’acqua e il bel mercato agricolo ricco di ogni genere di verdura e ortaggi, ma soprattutto perché terra di testimoni.

Pochi giorni fa è salita al cielo Gabriella Orioli, la mamma di Maria Bonino, medico e pediatra biellese, morta a causa di una febbre emorragica, mentre a Uige, in Angola, lavorava con Medici con l’Africa nel reparto di pediatria dell’ospedale provinciale. Era in prima linea. La conobbi proprio mentre lavorava all’ospedale Lachor di Gulu. Mi colpì molto sia per la competenza, sia per la dolcezza e la nobiltà d’animo e di pensiero. La cercai dopo qualche anno perché potesse lavorare con me, a Kitgum, inserita in un progetto complesso che richiedeva personale capace, esperto e dedicato. Non accettò perché si era già impegnata a lavorare con il Cuamm-Medici con l’Africa. Quando Papa Benedetto XVI visitò l’Angola nel 2009, nel suo discorso sullo sviluppo della donna nominò solo due persone: l’italiana Maria Bonino e l’angolana Teresa Gomes, esemplari testimoni della nostra epoca e dello straordinario contributo delle donne alla vita e al bene del e nel mondo.
“…Quanto a Maria Bonino: era una pediatra italiana, offertasi volontaria per varie missioni in quest’Africa amata, e divenuta la responsabile del Reparto Pediatrico dell’Ospedale provinciale di Uige, negli ultimi due anni della sua vita. Votata alle cure quotidiane di migliaia di bambini lì ricoverati, Maria dovette pagare con il sacrificio più alto il servizio ivi reso durante una terribile epidemia della febbre emorragica di Marburg, finendo lei stessa contagiata; anche se trasferita a Luanda, qui decedette e qui riposa dal 24 marzo del 2005.”

L’ultimo suo commovente scritto descrive tutta la statura di questa splendida persona:

“.. ho la febbre e mi sento tutta rotta. Speriamo che sia malaria. E se no… mi dispiace di morire, mi dispiace per me, per il dolore della mamma, della Cri, del Paolo, dei miei nipoti e dei miei cognati, delle persone che mi vogliono bene e cui voglio bene. Ho ripetuto tante volte in questi anni che ‘la vita è la realizzazione del sogno della giovinezza’; è stato per molta parte così e ne ringrazio il Signore. Non sono certo all’altezza del Dr. Matthew, ma se la mia morte fosse l’ultima non mi dispiacerebbe poi tanto di morire.”

Sempre a Gulu aveva conosciuto Matthew Lukwiya, giovane e geniale medico, che era diventato direttore dell’ospedale St. Mary’s di Lachor fondato e sviluppato dai coniugi Piero e Lucille Corti, che insieme ai missionari comboniani avevano creato un presidio sanitario di eccellenza. Nel 2000 quando scoppiò l’epidemia di Ebola nella cittadina di Gulu, Matthew si rese conto immediatamente della gravità della situazione, ben prima che arrivassero gli aiuti internazionali. Organizzò, subito e senza aiuti esterni, un reparto d’isolamento. Molto spesso, durante le devastanti epidemie dovute a febbri emorragiche, i malati sono lasciati soli con i familiari o abbandonati, isolati fin quando l’epidemia non cessa. Invece, primo caso nella storia della medicina africana della sfida alle malattie emorragiche, nell’ospedale di Lacor il personale sanitario, consapevole dei rischi, si prese cura dei malati.

Matthew si trovava a Kampala per finire i suoi studi per la specializzazione in Sanità Pubblica. Era già ben conosciuto per i suoi studi sull’AIDS e rappresentava uno dei più brillanti ricercatori nella lotta all’HIV. Venne chiamato dai colleghi, per investigare su inspiegabili decessi avvenuti sin da agosto tra i pazienti ammessi in ospedale. Quando i risultati di laboratorio confermarono che si trattava di virus Ebola, l’OMS e le autorità del Ministero della Sanità trovarono a Gulu l’ospedale già organizzato a far fronte alla estremamente contagiosa malattia. La battaglia venne portata avanti da personale che volontariamente si offrì per fermare l’epidemia. Si trattava di medici, infermieri, personale di sostegno. Il gruppo incaricato di raccogliere i malati dai villaggi e di seppellire con dignità i corpi delle vittime, venne capitanato dal comboniano fratel Elio Croce, vera “roccia” trentina, originario di Moena.

Al Lachor perdono la vita 18 operatori sanitari, tra questi il dottor Lukwiya.

L’intensità di quei giorni è contenuta nelle parole che Matthew pronunciò durante le esequie di una delle infermiere volontarie morte per aver contratto il virus, Grace Akullu.

“Davanti a noi si sta svelando un grande mistero. Dai nostri operatori morti di Ebola non abbiamo udito parole di risentimento, di rabbia o di rimpianto per avere accettato questo impegno così pericoloso. Ma solo parole di gratitudine e incoraggiamento, come da Daniel alcuni giorni fa e da Grace ora. La testimonianza e la santità del nostro personale sono un dono per il presente, che il futuro valorizzerà. Sono tutti giovani alla fine dei loro studi, pieni di sogni per il loro futuro e nonostante questo pronti a rischiare la loro vita, sacrificandosi per evitare una più grave catastrofe. Il nostro servizio ai malati continuerà arricchito di nuova energia e ragione”.

Matthew fu l’ultimo operatore sanitario a perdere la vita. Dopo due mesi l’epidemia fu dichiarata finita dall’OMS.

Gulu, luogo che raccoglie l’acqua, è stato lo scenario dove hanno speso la loro vita decine di missionari, soprattutto comboniani, dove è passata, lieve come la brezza leggera dove Dio si fece presente al profeta Elia, Maria Bonino, dove si sono sacrificati i 18 operatori sanitari per salvare tutto il popolo. Gulu, la città dei coniugi Corti e di tanti altri testimoni della cura che Dio ha per tutti, pronti a dare la vita per svelarlo a tutti.

“Il quinto vangelo che tutti possono leggere è la nostra vita” (Beato Henri Vergès, ucciso ad Algeri l’8 maggio 1994).