(Editoriale)

Nel sottobosco di certe affermazioni, che talvolta possono essere vere e proprie accuse di non far parte di un territorio pur lavorandoci o essendo presente per svariati motivi, si insinua il limite che qualcuno vorrebbe imporre al senso di appartenenza, legandolo stretto stretto (proprio al territorio), e imprigionando l’appartenenza dentro a confini geografici che la soffocano e la svuotano del suo ampio e universale significato.

L’appartenenza, noto qua e là sintetizzando, indica ed integra l’identità ed in buona sostanza indica la nostra stessa esistenza. Sarà questa la ragione per cui tutti noi cerchiamo di appartenere per esistere, e in qualche modo anche per contare. Ad una famiglia, ad un gruppo, un popolo, un partito, una comunità… si può, e si deve, appartenere a qualcosa e a qualcuno.
Ma la realtà pare ci stia richiamando ad aumentare la nostra capacità di appartenenza, ingrandendo la superficie d’azione sulla quale cresce e matura la nostra identità.

Ci sono spinte identitarie estreme che vogliono restringere e confinare il nostro senso di appartenenza dentro a poche cose che accomunano altrettante “poche” persone, se rapportate al mondo che abitiamo.

Spinte che fanno della lingua, del colore della pelle, dello status sociale, della religione, del territorio, della regione o persino della Nazione – e altro ancora – i soli criteri sui quali fondare il nostro senso di appartenenza. Spinte che vanno in controtendenza, e che hanno successo fintanto che non si materializza sempre di più il modo in cui vogliamo veramente creare un mondo al quale le persone desiderino appartenere.

I giovani hanno lo spazio e il tempo di costruirlo attorno a quei valori che hanno fatto identità, e continuano a farla travalicando ormai i confini – materiali ed immateriali – tracciati dalle povere mani dell’uomo.