Questa foto, che spero in tanti abbiano visto, ci ha creato un disagio profondo e una tristezza incontenibile. Il pane calpestato affinché non arrivasse a destinazione, affinché non fosse consegnato a coloro che lo attendevano.
Non entriamo nel merito della vicenda dei 60 rom che dovevano essere installati in un centro di accoglienza alla periferia di Roma e alle proteste dei cittadini dello stesso quartiere che non li volevano. Facciamo finta che Roma sia tanto distante da noi, che noi quei problemi non li abbiamo e sapremmo far meglio, facciamo finta che noi siamo molto più educati, facciamo finta di non conoscere bene queste dinamiche, queste o quell’altre persone, queste grandi città, queste periferie. Insomma, facciamo finta su tante cose, e diamo spazio a ciò che ci fa più comodo. Ma sul pane, no. Su quel pane calpestato, sporcato, selvaggiamente deturpato, sciupato, schiacciato da decine di piedi, su quello non possiamo far finta di niente. Su quel pane non ci resta che piangere, amaramente.
Quel pane potrebbe essere ovunque nelle nostre città e paesi, potrebbe essere per chiunque ci stia simpatico o antipatico, potrebbe essere per noi o per i nostri cari un giorno o l’altro, e su quel pane violato non possiamo non sentire affiorare la pelle d’oca, lo sdegno, la tristezza, persino la paura. Quel pane è stato calpestato perché altri non lo mangiassero; e questo è il limite di non ritorno da una situazione che mostra lo stato di barbarie in cui versa l’Uomo, barbaro verso se stesso e barbaro verso gli altri.
Togliere il pane di bocca ad una persona calpestandolo è l’affronto, l’umiliazione, lo scherno, il disprezzo più grande che si possa immaginare, un sacrilegio. Diranno che c’erano cento motivi per farlo e che la gente del quartiere era stanca di far fronte a certe situazioni anche di degrado. Certo, possibile. Ma il pane, cibo, nutrimento, simbolo di fraternità che si spezza per chiunque e non si nega a nessuno, non si tocca. Senza pane non c’è agape, non c’è famiglia, non c’è amicizia. Toglierlo di bocca e calpestarlo è voler affamare, è auspicare la morte dell’altro, è privarlo di un sostentamento indispensabile, è l’ultimo gesto di una tragedia che non vorremmo diventasse la storia quotidiana dei tempi a venire.