Tra una settimana si vota per le regionali in Campania, Puglia e Veneto: secondo i sondaggi dell’autorevole “Corriere della Sera” è prevista la riconferma del centro-sinistra a Bari e Napoli e del centro-destra a Venezia. Ma, ancora una volta, colpisce la crescita dell’astensione: in Campania si stima arriverà al 56%! Lo scontro “feroce” (modello Trump) tra i due Poli non attrae gli elettori, con uno scollamento crescente tra leadership politica e popolazione. Non è un buon viatico per l’istituto regionale, dopo mezzo secolo di vita; soprattutto, è l’ennesimo segnale inquietante per la vita democratica del Paese.

I partiti stanno litigando furiosamente su tutto, dalle tasse alla politica estera, ma non acquisiscono nuovi consensi perché i due Poli hanno al loro interno troppe contraddizioni, politiche e programmatiche, che suscitano incertezza e disagio.

Nel destra-centro ha fatto scalpore la riabilitazione del fascismo e di Mussolini compiuta dal generale Vannacci, vice-segretario della Lega. Salvini ha preso le distanze, ma non è pensabile che un partito di governo possa tollerare ai vertici un negazionista del ventennio autoritario, dalla perdita delle libertà alle leggi razziali, dalle guerre coloniali all’alleanza suicida con il Terzo Reich. Ed anche la Meloni poteva (doveva?) farsi sentire a riguardo.

La Presidente del Consiglio dovrebbe poi interrogarsi sui buoni rapporti (suoi e di Salvini) con il premier ungherese Orban, che è andato da Trump per difendere Putin, “sparare” sull’Europa e chiedere trattamenti privilegiati, pur essendo membro UE. L’Italia, paese fondatore dell’Europa, non può tenere i piedi in due scarpe diverse, con Bruxelles e con Budapest, perché questo favorisce il disegno trumpiano di dividere il Vecchio Continente, rendendolo marginale nello scenario geo-politico. Inoltre, non si può essere alleati di Kiev contro l’aggressione russa e “amici” di chi chiede la resa dell’Ucraina. Questa confusione, che sa molto di opportunismo, non avvicina gli elettori alle ragioni ideali della politica, anzi li allontana.

Nel centro-sinistra, ormai tramontato il “campo largo”, ognuno corre per sé: sulle tasse la giusta richiesta di favorire i ceti “poveri” si è subito frantumata sulla proposta Schlein-Bonelli-Fratoianni di introduzione della “patrimoniale”; la misura è stata respinta da Conte, Renzi e Calenda, in termini ultimativi. Sull’Ucraina continua la “neutralità” dei Pentastellati, mentre cresce la spinta di Conte per una sua candidatura a Palazzo Chigi, in luogo della segretaria del Pd.

Ma la questione più spinosa riguarda la linea del Pd, con lo scontro aperto tra radicali e riformisti. Sulla posizione di Prodi si è schierato il leader del nuovo movimento “Più uno” Ernesto Ruffini, che accusa la Schlein di una concezione minoritaria mentre la destra si può battere soltanto con il ritorno allo spirito maggioritario dell’Ulivo. Non sarà facile per l’ex ministro Franceschini “mediare” tra indicazioni così differenti.

Anche nel mondo sindacale le divergenze prevalgono con quattro tesi: l’Usb (sindacati di base) ha proclamato subito uno sciopero generale contro la legge finanziaria; la Cgil di Landini si fermerà il 12 dicembre, mentre Cisl e Uil mantengono linee differenti. Sono lontani i tempi della grande unità sindacale Cgil-Cisl-Uil (all’epoca della triade Lama, Carniti, Benvenuto).

Infine il referendum sulla giustizia. Un sondaggio de “La Stampa” attribuisce al sì alla riforma un vantaggio di 10 punti sul no. Ma un elettore su tre è incerto e uno su due non conosce esattamente i punti salienti della legge che separa le carriere di pm e magistrati giudicanti. Su queste incertezze fa leva l’ANM (il sindacato delle toghe) per impostare una campagna referendaria non politicizzata, incentrata sui temi specifici della giustizia (anche quelli irrisolti, non affrontati dal ministro Nordio).

Non uno scontro tra i poteri dello Stato, insomma, ma una valutazione precisa delle nuove norme. Dalla Magistratura arriva una scelta pienamente in linea con il dettato costituzionale, con la speranza che il Governo e le forze politiche non trasformino il referendum in una consultazione pro-contro l’Esecutivo. Sarebbe un errore grave, come quello compiuto da Renzi nel quesito istituzionale del 2016.