(Ferdinando Zorzi)

La parola “talento”, già nel Latino ecclesiastico prima che in Italiano, ha assunto un nuovo significato proprio in riferimento alla parabola evangelica di questa domenica. Dalla moneta di valore diffusa nella Grecia antica e nel Mediterraneo orientale (e, prima ancora, unità di misura di massa e peso nella stessa area) al “dono divino” ricevuto in quantità diversa da ciascuno di noi. Come ognuno dei servi ha una certa somma di talenti da amministrare per conto del padrone, così ognuno dei figli di Dio ha capacità, attitudini e caratteristiche differenti, da impiegare come mezzo per una vita pienamente vissuta, nella prospettiva della “resa dei conti” finale.

La società moderna sembra dare particolare rilievo al talento: sono diffusi e molto popolari quei programmi chiamati talent show, in cui viene esaltata una vasta gamma di capacità, dalle più comuni alle più stravaganti. Spesso accade perfino che il talento sostituisca la persona e che, al breve periodo della popolarità e della fama, seguano anni di oblio in cui molti di questi ragazzi – perché sono per lo più i giovani ad esibirsi – cadono in depressione, essendo stati valorizzati e identificati solo per una particolare caratteristica e non nell’interezza della loro umanità. Un discorso simile può riguardare il mondo dello sport: molti campioni, a fine carriera, hanno parlato della difficoltà di coltivare il proprio talento e di essere considerati solo in virtù di esso, quando non unicamente in base al fatturato prodotto.

Nell’avere a che fare con il proprio talento, ciascuno si ricordi dell’ammonimento di questa parabola: ciò che è stato ricevuto senza merito va fatto fruttare e restituito. Come sentii predicare a un frate francescano molti anni fa: “L’umiltà non è affermare: ‘Ho solo un talento’, se in realtà ne abbiamo dieci. L’umiltà è dire: Ho dieci talenti e me li ha dati Dio”.

Mt 25, 14-15.19-21 (forma breve)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli
questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni.
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle
regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva
ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho
guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele –
gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò
potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”».