Vorrei impegnare il lettore in una breve lettura che porti serenità e fiducia.

La parola ospedale non sempre suscita ricordi o pensieri positivi, ma il mio scrivere potrebbe indurre ad un cambiamento di opinione. Sono una signora anziana: il 6 luglio mi trovavo nei pressi dell’ospedale, per una visita medica. Improvvisamente ebbi un malore.

Mio marito disse: “Ci fermiamo prima al pronto soccorso”, e mi aiutò a fare i pochi passi per entrare.

Mi accolsero dottori e infermiere… il resto l’ho scordato. Ricordo solo il lettino in cui mi trovavo e tanti macchinari.

Ma la mia degenza doveva continuare, ed ebbi il tempo di osservare dottori e infermieri che si alternavano presso gli altri assistiti, e i volontari della Croce Rossa, che si disponevano a trasportare gli ammalati.

Tutti attenti, gentili e premurosi.

I compagni di stanza dormivano, io mi soffermavo a cogliere ogni attimo di quella nuova esperienza. Non facevo domande: mi limitavo ad ascoltare il nome del nuovo esame cui ero sottoposta e osservavo gli occhi sorridenti della infermiera, che faceva lo slalom con il mio letto per corridoi e ascensori.

Poi venne il momento del ricovero in neurologia: mi fu spiegata la motivazione.

Potevo scegliere di non accettare e tornare a casa.

Ma quando si è in ballo…

In quel momento, il sorriso negli occhi di una dottoressa che spiegava e rassicurava.

Firmai l’accettazione.

Anche nel nuovo reparto il mio soggiorno ebbe gli stessi ritmi: visite di dottori, infermiere, Oss.

Mi stupiva un poco che negli occhi di tutti, al di sopra della mascherina, ci fosse sempre quello sguardo.

E riflettevo sul fatto che la pandemia ci ha insegnato a guardare le persone negli occhi.

Passarono i giorni e ricevetti tanti controlli e tante cure.

Le infermiere che mi spingevano sulla carrozzina nei corridoi e negli ascensori, invariabilmente mi intrattenevano in brevi osservazioni. Feci anche l’esperienza di essere trasportata in ambulanza all’ospedale di Chivasso, per la Rmn.

E in quella occasione pregai gli autisti di poter stare seduta sul veicolo, anziché coricata.

Furono gentili, e quel viaggio fu breve e rilassante.

Erano due volontari che, discorrendo con me, espressero una loro difficoltà: all’ospedale di Ivrea non esiste uno spazio riservato per il parcheggio dell’ambulanza, che deve dribblare le auto in sosta sul piazzale.

Inoltre non è previsto un passaggio riparato fra l’ospedale e il veicolo e a volte, se piove a dirotto, i due volontari devono spingere il lettino del paziente e provvedere a riparare l’assistito con l’ombrello.

Che dire? Ogni esperienza arricchisce l’essere umano.

E io posso affermare di essere ricca di una nuova consapevolezza: cercherò di cogliere i significati profondi che ogni vita porta con sé. Magari anche nascosti da una mascherina.

Ma con questo scritto voglio esprimere soprattutto un ringraziamento a tutte le parsone che mi hanno aiutata in questa esperienza, perché sempre la parola “grazie” è doverosa.

Mariella Beata Getto