Per comprendere il valore del servizio che la Chiesa offre ai malati e al personale di ospedali e case di riposo, abbiamo rivolto alcune domande al diacono permanente Marco Florio, responsabile dell’ufficio diocesano di pastorale della salute.

Diacono Florio, perché è necessaria l’assistenza religiosa negli ospedali e case di cura? E come inquadrare la figura del “cappellano”?
L’attività della Chiesa è stata sempre accoppiata alla cura. Nei primi tre secoli del cristianesimo il soccorso e la sollecitudine ai sofferenti e ai poveri s’incrementò congiuntamente alla diffusione dell’annuncio evangelico. E nel tempo, questa impronta caritativa, acquistò autorevolezza, consolidando una notevole rete organizzativa e operativa.
Oggi vi sono norme e decreti che regolamentano la presenza degli assistenti spirituali nei luoghi di cura. L’Organizzazione Mondiale della Sanità sancisce che il bisogno spirituale è inserito fra i bisogni primari della persona e quindi gli assistenti religiosi dovrebbero far parte dell’equipe curante. Qui c’è un’intesa fra la Conferenza Episcopale Piemontese e la Regione Piemonte che norma chiaramente chi può essere l’assistente religioso all’interno di un ospedale.

L’intesa non parla più di semplici “Assistenti religiosi”, ma di “Personale di assistenza religiosa”, rimandando con questo termine ad una vera equipe, che in termini pastorali si chiama “Cappellania”.
La grande novità è che a svolgere questo servizio potranno essere assunti non solo sacerdoti, ma anche diaconi, religiosi/e e laici, debitamente abilitati dall’Ordinario Diocesano. Questo permetterà l’inserimento di figure diverse e retribuite, rispetto a quella esclusiva del sacerdote.
Abbiamo visto, durante il tempo della pandemia, quanto l’assistente religioso sia stato importante non solo per la persona degente, ma anche per il personale sanitario che ha vissuto con tanta fatica la vita in ospedale. Ma non è tanto il fatto di fare da spalla al personale sanitario, ma di camminare insieme. Ancora lontano, se non in hospice, è il lavoro dell’equipe medica con all’interno la figura dell’assistente religioso. Questo cammino richiede una formazione permanente dell’assistente religioso che deve imparare a lavorare in una equipe professionale strutturata in un certo modo.

L’assistenza religiosa non è una prerogativa solo per i cattolici…
Assolutamente no. Anche se all’ospedale di Ivrea non c’è ancora la multi etnicità che esiste nelle grandi città, ogni volta che incontriamo una persona di altra confessione, facciamo il possibile, se lo desidera, per incontrare il suo ministro. Proprio perché chi fa assistenza religiosa incontra delle persone ammalate e i loro familiari.

Nella sua lettera del febbraio 2022 l’assessore regionale Icardi  sembra richiamare alla necessità di garantire questo servizio; non era più garantito?
Il tempo della pandemia è arrivato a dare una spallata ad un sistema di assistenza religiosa negli ospedali che era un po’ in crisi. Essendo noi in convenzione è stato più semplice per le Direzioni Sanitarie tenerci fuori dai reparti. Ma tenendo fuori dai reparti gli assistenti religiosi veniva negato un diritto al malato che era quello di essere curato: infatti, come ho detto prima, l’assistenza spirituale fa parte della cura. Tante volte ci siamo sentiti dire: “Non entrano i parenti, volete entrare voi?”. Abbiamo risposto che la legge e il Vangelo ci chiedevano di stare vicino agli ammalati. Nonostante le limitazioni siamo riusciti, all’ospedale di Ivrea, a garantire un’assistenza religiosa continua anche perché la direzione ha capito che era importante che stessimo vicino agli ammalati. Anche il personale, credo di poter dire, ha sentito il bisogno di una nostra presenza di speranza e di consolazione.
A Chivasso hanno avuto più limiti. All’hospice di Foglizzo c’è stata una presenza continua. Questa situazione si è presentata un po’ dappertutto nella nostra Regione, e non solo. Per questo credo che l’Assessore Icardi abbia scritto le due lettere stimolato dal Vescovo di Alba, Marco Brunetti, delegato dai vescovi piemontesi per la pastorale della salute, e da altri autorevoli membri della stessa Consulta Regionale.

Chi fa parte dell’equipe di assistenza spirituale sanitaria in diocesi?
L’ospedale di Chivasso ha una equipe formata da tre sacerdoti e da alcune suore, quello di Ivrea ha una cappellania costituita da due sacerdoti, un diacono permanente, due suore e una laica. L’Hospice di Foglizzo ha un diacono permanente che è inserito nell’equipe dei curanti. Nelle case di riposo normalmente l’assistenza spirituale è assicurata dal parroco del posto.

Qual è la differenza tra assistenza spirituale ai malati e pastorale della salute?
Andare a trovare gli ammalati è opera di carità di ogni cristiano. L’assistenza spirituale nei luoghi di cura, invece, ha bisogno di persone formate perché inserite in un contesto professionale ed operativo delicato in cui è necessaria una stretta collaborazione tra tutti gli attori. Dobbiamo essere formati anche per entrare nelle case delle persone malate, per portare loro conforto, per portare Gesù Eucarestia. Formati dal punto di vista liturgico e dal punto di vista relazionale. La pastorale della salute, attraverso la consulta diocesana può fornire strumenti e percorsi di formazione perché le comunità non solo sanitarie, ma anche parrocchiali, diventino comunità sananti, che possano mettere attorno alle mense eucaristiche tutti i crocifissi che soffrono e non hanno voce per gridare il loro dolore.

Che senso dare all’assistenza spirituale?
Innanzitutto va detto che l’assistenza spirituale è fondamentale. Chi fa questo servizio, chi incontra l’ammalato deve chinarsi su di lui, deve sentire la sua sofferenza, toccare la sua carne. Chi si incontra può anche non guarire, ma deve sentirsi guardato. Nel malato, nel sofferente c’è Cristo e noi dobbiamo riuscire sempre a vederlo.

c.m.z.