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Da piccolo avevo paura dell’acqua, mi paralizzava: non riuscivo a staccarmi dal bordo della piscina, al mare facevo impazzire i miei genitori. Poi, un giorno al Lago Sirio, senza pensarci troppo, in un colpo di incoscienza e puerile desiderio di rivincita, mi lanciai dal trampolino più alto. Un volo breve, un tuffo sgraziato; ma mi era passata la paura. L’acqua, da allora, è diventato il posto in cui sto bene.
Cominciai a nuotare, addirittura mi iscrissero alla scuola di nuoto, mi convinsero a fare qualche gara, ma con scarsissimi risultati: non ho mai portato a casa medaglie. Eppure, in acqua, crescevo: soprattutto nell’umano. Sono diventato bagnino, poi istruttore. La cosa che più amavo? Insegnare ai piccolissimi. Entrare con loro in acqua, mostrare con la pratica, creare una relazione calda, non impartendo un freddo dictat. Oggi nuoto raramente e non insegno più. Ma al mare due bracciate a rana, rigorosamente delfinata, sono la cosa più bella che c’è.
Credo la mia parabola sia la medesima di moltissimi ragazzi: quelli col sogno di diventare calciatore, che poi da adulti riscoprono nella scuola calcio le basi sociali delle competenze di team-building e di networking. Qua nasce il rispetto per gli altri e per le regole, il fair-play, lottare per qualcosa di prezioso, porsi un obiettivo e raggiungerlo, rialzarsi dopo che si è caduti.
Una voce insolita ha recentemente ben descritto l’essenza dello sport: è quella di Papa Leone XIV al recente Giubileo dello Sport. “Ogni buona attività umana porta in sé un riflesso della bellezza di Dio, e certamente lo sport è tra queste”, ha detto il Pontefice. Lo sport, allora, è riflesso di Dio non perché “fa bene alla salute”, ma perché coinvolge tutto l’uomo in un movimento verso l’altro, verso un noi.
In un mondo dove si sgomita per emergere, dove si vive in apnea tra notifiche e confronti, lo sport è ossigeno. “Insegna anche a perdere”, ha ricordato il Papa implicitamente sottolineando che questa è una delle lezioni più dure ma anche più vere: quella di saper accettare il limite e capire che la vittoria non è schiacciare l’avversario, ma restare umani.
E poi c’è quell’imperativo: “Dai!”. Che è più che un incoraggiamento: è un verbo. Dare. Dare se stessi, agli altri, a Dio. Ecco cos’è lo sport per me: non il podio, ma la possibilità concreta di formarsi nell’umano e, se lo si vuole, anche nel cristiano. Diventare persone che sanno vincere e perdere, ma soprattutto perdersi per trovare un bene più grande. Anche solo per un bambino che impara a galleggiare senza paura.