(Susanna Porrino) Leggere i giornali di questo ultimo mese rende evidente come l’emergenza coronavirus abbia infranto persino i confini vaghi ma invalicabili della comunicazione mediatica: abituati a mantenere vivo l’interesse per eventi e notizie per un tempo relativamente breve, ad essere continuamente tempestati di nuovi stimoli e perennemente sballottati in un vortice di novità che brillavano e sbiadivano in meno di dieci giorni, ci troviamo forse per la prima volta negli ultimi anni in una circostanza in cui la stampa nazionale (e, da qualche settimana, anche quella mondiale) è interamente assorbita da un’unica materia.

Gli schermi di televisioni e computer non fanno altro che restituirci le immagini, sempre tristemente simili, di medici e reparti ospedalieri, alternandoli ai discorsi dei Capi di Stato e alle preoccupazioni per i danni che affliggeranno l’economia al termine della crisi. E se forse in tutti noi è sopravvissuta una minima componente di coscienza che vorrebbe sentire “parlare d’altro”, ci stiamo accorgendo che la velocità con cui eravamo abituati a consumare tempo e informazioni altro non era che artificiosa costruzione di fronte ad una natura che si muove secondo altri tempi e altri cicli.

Vorremmo “spegnere” la notizia, far cessare la reclusione che ci dà l’impressione di essere fermi (anche se, evidentemente, non lo siamo) e tornare a vivere e discutere di eventi lontani ed effimeri… Siamo invece ineludibilmente costretti a confrontarci con una realtà che persiste e che non ha bisogno del nostro consenso per operare.

Persino la Pasqua giunge per la prima volta come in punta di piedi, quasi senza fare rumore, non accompagnata dal consumistico trambusto di cui eravamo soliti vederla circondata, oggi praticamente invisibile dall’interno delle nostre case. Si presenta alla nostre porte senza irrompere violentemente e offrendosi come un dono nel dolore di questo momento, molto meno discussa degli ultimi anni, ma molto più attuale.

Un articolo del New York Times di un paio di giorni fa definiva la nostra Nazione come “disperata, affamata e impaurita” dopo un mese di lockdown. Ebbene, il messaggio di speranza e di vittoria sulla morte e sulla sofferenza che la Pasqua porta oggi più che mai ci vede coinvolti, sia nella fiducia sia nello scetticismo: perché guarda in faccia senza sdegno proprio la nostra disperazione, la nostra tensione, la preoccupazione e la solitudine di questo momento.

Per la prima volta, siamo liberamente chiamati a vivere e ad accogliere questa speranza come singoli individui e non come società.

Quello che tutti quanti possiamo augurarci è che questa Pasqua ci liberi ancora più che dal dolore dalla paura di esso, e infonda una luce e un senso alla sofferenza con cui stiamo convivendo.