(Fabrizio Dassano)

A differenza del magnetofono a cassette, del mangiadischi o del walkman a cassette (che per la prima volta permise di portarsi appresso la musica), la radio è un apparecchio che non è mai scomparso: essa rimane anzi uno tra i più diffusi mezzi di comunicazione di massa, così come l’organizzazione che c’è dietro per farla trasmettere.

La prima trasmissione a distanza del suono sfruttando le onde elettromagnetiche (studiate sul finire dell’800 da James Maxwell, Heinrich Hertz e Nikola Tesla) si deve come noto a Guglielmo Marconi, che nel 1901 riuscì a trasmettere la lettera “s” da una sponda all’altra dell’Atlantico. Seppure l’Italia fosse sul piano scientifico la patria della radio, da noi il nuovo strumento conobbe più difficoltà a imporsi rispetto ad altri Paesi: ad esempio nel 1922 veniva fondata la BBC inglese (la più antica radio del mondo tuttora esistente), mentre alla fine dello stesso anni negli Stati Uniti si contavano ben 187 stazioni locali e quasi 750mila apparecchi ricevitori.

In Italia fece la sua comparsa ufficiale il 6 ottobre 1924 con la voce di Maria Luisa Boncompagni a introdurre la prima trasmissione dell’Uri (“Unione Radiofonica Italiana, stazione di Roma Uno”): un programma minimo con musica operistica, da camera e da concerto, un bollettino meteorologico, le notizie dalla borsa e l’Annunzio dell’Ora. Un primo palinsesto che sarebbe cresciuto molto nel tempo.

La trasmissione via etere entrava così in competizione con quella via cavo, la già ben sperimentata “filodiffusione”. In effetti, già dai primissimi anni del ‘900 l’informazione viaggiava nei circuiti telefonici, che era in molto piccolo quello che succede sui nostri smartphone. In Italia spopolava tra gli abbonati l’Araldo Telefonico, programma che era la prima diffusione delle notizie locali (cominciate a Parigi con il Théâtrophone, il Telefon Hírmondó di Budapest e l’Electrophone di Londra): era stato l’ingegner Luigi Ranieri a ottenere nel 1909 la concessione dal Ministero delle Poste per trasmettere notiziari e musica attraverso le linee telefoniche. Esattamente dove corre oggi la rete stessa di internet. Gli apparecchi riceventi erano semplicemente costituiti da una cuffia che costava 15 lire, mentre l’abbonamento annuo ammontava a 5 lire. La trasmissione iniziò nel 1909 solo per la città di Roma, poi tra il 1921 e 1922 furono installate le stazioni di Bologna e Milano. Fra gli abbonati vi erano la regina Margherita e Benito Mussolini.

Inizialmente l’Araldo Telefonico mantenne la superiorità sulle stazioni radiofoniche, perché usufruirne costava molto meno dell’acquisto di un apparecchio radio e perché aveva contratti in esclusiva con i grandi teatri per la trasmissione in diretta dei concerti. L’ultimo servizio venne spento a Bologna nel 1943: gli abbonati erano rimasti un centinaio e ormai la radio aveva preso il sopravvento.

Altro fenomeno interessante che comparve con la diffusione della radio fu quello del “teatro cieco” cioè del “radiodramma”: una forma d’arte che presentava testi di tipo teatrale ma nati e recitati per la radio, in cui la voce rappresentava l’essenza degli attori con i rumori di scena e qualche brano musicale. I primi esperimenti avvennero in Gran Bretagna con la BBC, cui si deve la messa in onda del primo radiodramma (“Danger” di Richard Hughes, nel 1924), mentre nel medesimo anno in Francia fu trasmesso “Maremoto” di Pierre Cusy e Gabriel Germinet; in Germania il primo passo avvenne nel 1925 mentre in Italia il primo “adattamento radiofonico” di un’opera teatrale fu trasmesso il 18 gennaio 1927 dalla sede di Milano dell’EIAR: si chiamava “Venerdì 13”, di Mario Vugliano. Il primo vero e proprio radiodramma italiano fu del 1929, con “L’anello di Teodosio” di Luigi Chiarelli.

Gli Anni ‘30 videro accostarsi alla radio molti drammaturghi di vaglia, tra cui Samuel Beckett, Friedrich Dürrenmatt, Bertolt Brecht e, in Italia, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Filippo Marinetti, Ottorino Respighi e Guido Piovene per citare i più conosciuti. In Italia il grande successo di pubblico avvenne negli tra gli Anni ‘50 e gli Anni ‘70 con Eduardo De Filippo, Vasco Pratolini, Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Silori, Antonio Santoni-Rugiu, Italo Alighiero Chiusano, Primo Levi, Diego Fabbri. I registi furono: Antonio Bandini, Guglielmo Morandi, Luigi Squarzina, Anton Giulio Majano, Enzo Convalli, Sandro Bolchi. Col passare del tempo, la radio non dava solo più notizie, non “insegnava” solo a educare alla lingua italiana, ma faceva anche spettacolo culturale: un’epopea che oggi rivive sulle piattaforme in streaming di grandi emittenti.

L’informazione locale via radio conobbe il boom negli anni ‘70 con l’esplosione del fenomeno delle radio libere, legato anche ad un aspetto tecnico e cioè la diffusione in Modulazione di Frequenza (FM). In breve diremo che fino al 1974 i privati non potevano aprire una stazione radio in Italia. Si ascoltava la radio pubblica (Radio Rai) e si guardava la televisione pubblica (Rai TV). Solo nel Nord Italia potevano essere ricevute in FM le tre emittenti estere che trasmettevano in lingua italiana: Radio Capodistria, Radio MonteCarlo e Radio Svizzera Italiana.

Nel 1974 la Corte Costituzionale concesse ai privati la facoltà di trasmettere via cavo in ambito locale. Fu la prima storica sentenza contro il monopolio statale e alcuni pensarono all’imminenza della liberalizzazione delle trasmissioni via etere. Senza aspettare la legge, “esplosero” le radio private via etere. Queste stazioni radio private sfruttarono le potenzialità dell’FM, che aveva tuttavia un grosso difetto dovuto alla modesta ampiezza geografica: raramente un’emittente poteva coprire un’intera provincia. Ma questo limite divenne il punto di forza: nacquero i programmi indirizzati al pubblico locale, potevano trasmettere in stereofonia (altro vantaggio dell’FM) e soprattutto interagivano con gli ascoltatori, che venivano coinvolti direttamente dando loro la possibilità di telefonare nel corso dei programmi fornendo opinioni e commenti, oppure dando loro la possibilità di scegliere brani musicali di loro gradimento.

Molte radio cominciarono così a impostare palinsesti dedicati a fasce di utenza ben precise, centrando la programmazione su tematiche musicali (Rock, musica italiana, folklore locale etc.) o sociali (politica in primis) e informazione locale.

Nel 1976 arrivò una seconda, decisiva, sentenza della Corte Costituzionale: venne liberalizzata la trasmissione via etere in ambito locale. Le radio libere ebbero così copertura legale; da allora poterono moltiplicarsi su tutto il territorio nazionale. La limitazione territoriale venne superata creando reti interconnesse (network) che coprirono l’intero territorio nazionale. In pochi anni l’emittenza radiofonica privata si impose non più come alternativa all’emittenza pubblica, ma come principale fucina di idee e di professionisti (disc jockey e tecnici) con capacità professionali sempre maggiori.

Questo regime di concorrenza giovò anche alla stessa Rai, che si vide costretta a puntare su trasmissioni innovative, altrimenti impossibili senza lo stimolo della concorrenza.

Certo, oggi il panorama è totalmente cambiato per effetto dell’esplosione delle nuove tecnologie basate sul web. L’autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni (Agcom) nel 2019 divulgava i dati sulla domanda di informazione locale: l’86% dei cittadini (più di 8 italiani su 10) si informa abitualmente su fatti locali. Nelle regioni caratterizzate da forti comunità locali con specificità culturali e/o linguistiche, quali la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige le percentuali sono prossime al 100% della popolazione locale, rispettivamente 98% e 96%, mentre il dato più basso (si fa per dire) è il Piemonte con il 78%.

Un anno dopo la stessa agenzia comunica che il 70% del consumo medio di dati avviene su rete mobile e quest’estate annunciava ancora che la raccolta pubblicitaria on line per la prima volta nella storia ha superato quella della televisione e di qualsiasi altro media. Forse bisognerebbe tornare alla radio locale, sicuramente meno generalista e più concreta nell’attenzione al quotidiano nostro.