(Susanna Porrino)

Come tutti, sono rimasta profondamente impressionata dalla vicenda dei due giovanissimi ragazzi di Terni, morti a causa di una miscela letale a base di metadone; ma ancora di più mi hanno particolarmente colpito le dichiarazioni delle autorità che si sono occupate del caso, sconvolte dalla famigliarità giovanile con il mondo delle sostanze stupefacenti.

Il difficile rapporto tra i ragazzi e le droghe rappresenta un problema sempre più spinoso e di urgente trattazione per i tempi moderni, che tuttavia sembrano talvolta relegarla al calibro di una questione di secondo piano nel panorama sociale. Eppure si tratta di uno degli aspetti che più di molti altri sta danneggiando e corrodendo la società del futuro.

E se un tempo il motore delle dipendenze poteva essere insito nella scarsa conoscenza dei rischi, oggi ciò che dovrebbe preoccupare è soprattutto l’atteggiamento di ragazzi che, in un’età sempre più giovane, vanno spesso consapevolmente incontro agli effetti di pratiche o sostanze che contengono in sé solo un efficacissimo seme di distruzione.

Le sofferenze legate alla crescita che possono essere vissute a 14, 15 o 16 anni possono sembrare intollerabili nel momento in cui sono vissute, ma se affrontate con fiducia si rivelano poi estremamente preziose più avanti nel tempo.

Fatte salve le occasioni in cui le situazioni esterne siano più ardue e difficili della norma, e in cui sia dunque necessario un aiuto molto consistente per riuscire ad attraversarle in maniera sana, le vicende vissute in questa fase della vita non solo sono possibili da superare ma rappresentano una palestra fondamentale per il futuro.

Perché dunque i ragazzi si arrendono così velocemente di fronte ad esse? Per quale motivo si sentono imprigionati in un presente soffocante e vano, che non ha vie d’uscita nel mondo reale e sociale, e avvertono il bisogno di fuggire in altri modi?

Credo che, tra le moltissime questioni concrete che hanno portato ad un tale risultato, debba anche essere aggiunto un problema di narrazioni sbagliate o controproducenti a cui i ragazzi vengono abituati fin da piccoli. Il mondo adulto fatica ormai a ispirare qualsiasi desiderio di speranza o coraggio, ripiegato esso stesso su situazioni e problemi a cui ha ormai rinunciato a dare qualunque tipo di risposta. E i ragazzi sentono su di sé il vuoto e la delusione che i propri predecessori non si preoccupano di non trasmettere, traducendo il proprio senso di insoddisfazione in filosofie di vita che scoraggiano e abbattono.

La sovrapposizione tra le idee di sofferenza e fallimento non aiuta e non valorizza chi si trova ad affrontare un momento emotivamente non semplice; i concetti stessi di sicurezza e felicità nella vita sono legati ad una visione in cui a dominare è esclusivamente il successo, di sé e dei propri progetti.

Allo stesso modo, l’eccessiva concentrazione sulla sfera del singolo porta a ripiegarsi sulle proprie questioni e sulle proprie certezze, rendendo incapaci di oltrepassare la propria visione negativa sulla vita.

È sbagliato applicare ad ogni fascia d’età la sua buona etichetta, con cui ogni individuo si trova poi costretto a confrontarsi e misurarsi. Nello specifico, la definizione con cui i ragazzi si scontrano durante l’adolescenza e quella di protagonisti degli anni “migliori” della loro vita, definizione che spesso proviene da un mondo adulto ormai lontano e immemore delle lotte e dei combattimenti della crescita, generando nei giovani un senso di inadeguatezza e di netta divisione tra la propria percezione e quella del mondo esterno.

Creare delle categorie in cui incasellare le vite delle persone, delle tappe precise da seguire in un percorso che vorrebbe diventare standardizzato come tutto ciò che lo circonda, non fa altro che togliere valore all’individuo e alla dose di fatica e coraggio che ognuno è chiamato a impiegare come singolo.

Il problema dei ragazzi di oggi non è il senso di disagio, un sentimento conosciuto dall’uomo di tutte le generazioni probabilmente da un tempo molto antico.

Il problema reale è la mancanza di uno stimolo a cercare in sé la forza di non arrendersi troppo presto, prima ancora di poter vedere il frutto delle proprie fatiche; e su questo bisognerebbe cercare di lavorare per risollevare una generazione che si sente ormai completamente disillusa e che confonde l’auto-protezione col rifugio in sistemi che sono invece una condanna.