Nella foto la copertina del libro di Teresina Bussetti, che riporta la fotografia dell’Istituto per l’Infanzia della Provincia di Torino nell’anno 1958.
Il Risveglio Popolare di giovedì 20 novembre riportava la notizia della presentazione a Rondissone del libro di Teresina Bussetti, “La sfortuna mi ha messo al mondo. Infanzia abbandonata a Torino e nel Canavese tra Settecento e Novecento”, edito dalla Tipografia Baima e Ronchetti nel 2016.
Analizzando Il volume emerge un quadro veramente articolato e completo del fenomeno dell’infanzia abbandonata a Torino e nel Canavese nel periodo considerato, con tutti i drammi ad esso collegati, ma anche con l’evidenziazione del fatto che il capoluogo prima e la Provincia di Torino nell’Italia post unitaria poi, siano stati all’avanguardia nell’affrontare e gestire tali drammatiche situazioni. L’autrice ci chiarisce che il problema dell’assistenza degli “esposti” venne già affrontato in Piemonte fin dalla prima metà del 1500 con l’obbligo da parte della Città di accogliere e mantenere i bambini abbandonati tramite gli ospedali, che dovevano provvedere anche al reclutamento delle balie e, una volta ricondotti all’ospedale stesso, mantenerli, come scrive lo storico Caffarato “… fino a quando sieno giudicati idonei a vari servizi e mestieri…”.
Il volume dedica ampio spazio agli ospedali che nella città di Torino – e, tra questi, in primis, l’Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista – svolgevano il ruolo di accoglienza e gestione dei bambini abbandonati in città, ma nei cui archivi emergono anche elenchi di bambini provenienti da ospizi minori quali San Benigno, Rivarolo e Chivasso. Sicuramente in Canavese, però, svolgeva un ruolo di primaria importanza l’ospizio di Ivrea, collocato presso Casa Rama, in via Peretti, Parrocchia della Cattedrale, uno dei quattro “ospizi foranei” (gli altri erano a Pinerolo, Susa e Aosta) che l’Amministrazione della Provincia di Torino aveva l’obbligo di finanziare.
L’autrice del volume ricorda che, secondo quanto si può desumere dai lavori degli storici Alessia Berruti e Claudio Tonelli, l’avvio dell’attività dell’ospizio di Ivrea dovrebbe risalire all’inizio dell’Ottocento in quanto, al momento del decreto napoleonico del 1811 che istituiva gli ospizi dei trovatelli, ad Ivrea questo era già attivo. La sua chiusura definitiva avvenne il 1° luglio del 1904.
I bambini abbandonati ad Ivrea (esposti oppure nati in ospedale e lasciati al brefotrofio) nel periodo 1820 – 1904, come indicato nel volume, furono 5.952: si passò da un minimo di 7 abbandoni nel 1823 ad un massimo di 128 nel 1867; gli anni più “difficili” furono quelli dal 1855 al 1869 con oltre 100 abbandoni all’anno.
Nel 1870 l’ospizio di Ivrea, facendo seguito alla decisione della Deputazione provinciale di Torino del 1869, abolì “la ruota” che era stata introdotta nel 1832 e che da quella data aveva rappresentato, di fatto, l’unica modalità utilizzata per l’abbandono dei bambini.
Un altro tema estremamente interessante affrontato dal lavoro di Teresina Bussetti è quello della ricerca delle cause dell’abbandono così come si possono dedurre dall’analisi dei “biglietti” lasciati accanto ai bambini: come tutti possono immaginare le condizioni economiche delle famiglie, di norma numerose e con redditi instabili o assenti, rappresentano la maggioranza dei casi. Non trascurabili, comunque, i casi di malattia o morte di uno dei genitori, perlopiù la madre.
Messaggi con lessico forbito, senza errori grammaticali, scritti, quindi, da persone abituate a tale tipologia di comunicazione possono, per contro, far pensare o all’intervento di un mediatore, ma anche all’abbandono di bambini “figli della buona società”, nati magari al di fuori dal matrimonio, così come parrebbe confermare il ricco corredo che sovente li accompagnava.
Altro capitolo che l’autrice analizza con molta attenzione è quello delle balie.
Nell’ospizio di Ivrea, nel periodo 1820-1855, oltre l’80% dei bambini esposti veniva dato a balia entro la prima settimana e, comunque, praticamente mai oltre il terzo mese.
Il volume riporta l’elenco di quasi tutte le balie che hanno allattato dei bambini provenienti dall’Ospedale San Gio-vanni di Torino e dall’ospizio di Ivrea, dal 1804 al 1909, e residenti nei comuni del Canavese.
Il primo dato che balza agli occhi è quello che queste donne risiedevano prevalentemente in piccoli o piccolissimi comuni mentre provenivano in misura decisamente inferiore dai centri più grandi: 13 balie a San Giorgio, e San Giusto, 7 a Rivarolo ma, per contro, 31 balie a Vistrorio, 34 a Borgiallo e a Chiesanuova, 41 a Locana, 27 a Orio, solamente per fare alcuni esempi.
Tutte le balie appartenevano alle classi sociali più umili, erano prevalentemente contadine (tant’è che in concomitanza con i lavori estivi nei campi risultava più difficile reperirle), e il compenso che ricevevano per tale “attività”, seppur modesto, rappresentava pur sempre una voce non secondaria nel bilancio delle famiglie contadine del tempo.
Il compenso previsto per le balie dall’ospizio di Ivrea ammontava a 60 lire/anno fino al quinto anno di vita del bambino e scendeva a 36 lire/anno dal sesto al dodicesimo anno. A tale cifra andava aggiunta la quota relativa a “pannilini, fardello e vestiario” che ammontava a 12 lire/anno fino al quinto anno di vita e a 24 lire/anno nella seconda fascia di età. L’elevato numero di “esposti” rendeva comunque difficile il reperimento di una balia per tutti e quindi tale situazione portava gli istituti a chiudere un occhio sul rispetto di tutti i requisiti di cui la “buona nutrice” avrebbe dovuto essere provvista; i più disattesi, in periodi “difficili” furono l’età (la balia non avrebbe dovuto avere più di 40 anni) e la durata del puerperio (che non avrebbe dovuto superare i sei mesi).
Un ultimo aspetto affrontato dal libro di Teresina Bussetti è la questione dell’attribuzione del nome agli esposti. Nel 1812, nell’Italia settentrionale, durante la dominazione francese, venne introdotto l’obbligo di assegnare, oltre al nome, anche un cognome con l’indicazione che nome e cognome non rappresentassero un marchio di infamia per i bambini.
E così la fantasia degli ufficiali dell’anagrafe si scatenò: oltre a “Venturino” e “Venturina”, molto gettonati, sia come cognome che come nome, i cognomi più utilizzati per i bambini dell’ospizio di Ivrea e Torino si potevano ricondurre ad argomenti religiosi (Sperindio, Angeli, Di Maria…) oppure a qualità positive (Bonocore, Buonopane, Pensabene…). Purtroppo accanto a questi esempi non mancarono casi nei quali la normativa venne del tutto disattesa e alcuni bambini si ritrovarono con cognomi quali – solo per citare i meno volgari – Abbandono, Marchiato, Sbandato…
Questo ci conferma che, pur in presenza di una normativa all’avanguardia, in vaste fasce della popolazione persistevano pregiudizi che sfociavano in avversione nei confronti degli ultimi, di coloro che, parafrasando il titolo del libro, non potevano affermare di essere venuti al mondo sotto l’occhio della buona sorte. E non si può certo dire che, a distanza di due secoli, la situazione sia troppo migliorata.


