Carlo Pittara (Torino, 1836 – Rivara Canavese, 1891) l’aratura, 1870 circa.

Nei decenni precedenti il Risorgimento, la statistica dell’agricoltura in Piemonte era caratterizzata dall’unico studio voluto da Carlo Emanuele III tra il 1750 e il 1755 che pur offrendo un quadro parziale perché il Ducato di Aosta non fece pervenire notizie, risultò di grande efficacia per gli studi successivi. In realtà per la Valle d’Aosta i tributi dei coltivi valdostani, fin dal 1712, denunciavano 37.240 ettari coltivati sui 329.840 ettari componenti l’intero territorio valdostano.

Boschi, pascoli e gerbidi erano la maggioranza. Sommando con i dati del Piemonte, l’agricoltura del regno sardo di terraferma (esclusa la Savoia, la Sardegna, la Contea di Nizza e la Liguria) era formata dal 27,58% da campi coltivati, dallo 0,98% dalle risaie, dal 6,94% dagli alteni (coltura della vite alta promiscua con altre colture tra i filari), dalle vigne con il 6,95%. Il 13,49% era costituito da prati, il 4,56% erano catagneti, il 15,26% dai boschi e il 24,24% dai gerbidi.

Nell’allora Provincia di Ivrea che si estendeva per 266.741 giornate, pari a circa 101.361 ettari, (1 giornata piemontese = 0,38 ettari, di media) i campi coltivati erano di 42.961 giornate, gli alteni di 18.867 e solamente 7.376 giornate di viti pure. I verdi prati canavesani superavano l’estensione di 37.000 giornate e le castagne da cui si traeva sostentamento erano estese su oltre 16.000 giornate e su 41.468 vi erano i boschi. Oltre 100.000 le giornate “infruttifere” costituite da pascoli, gerbidi e porzioni di terreno non disponibili.

Il patrimonio zootecnico del Piemonte vedeva sempre nella provincia di Ivrea 2374 buoi, 1.141 vacche da giogo, ben 16.839 vacche da latte e 1.510 manzi. Gli ovini e caprini erano 29.745 capi, 804 i muli, 2.103 gli asini e 530 i cavalli sui 15.218 censiti.

Ma il problema dell’agricoltura piemontese era la resa: se i terreni migliori davano 6 volte (1:6) il quantitativo di sementi, in molte altre zone, come nel torinese, si stentava a raggiungere le 5 volte. Misure prese da Arthur Young nel viaggio-studio del 1787 in Francia e in Piemonte, il fondatore inglese della moderna statistica agricola che denunciò l’arretratezza piemontese. Paragonando le rese piemontesi con quelle inglesi, queste ultime rendevano circa il doppio.

Tenendo come base il frumento si otteneva in Inghilterra 1:11 e anche 1:12. Le rese unitarie del frumento erano basse e variegate: nella provincia di Ivrea si ottenevano 1,81 ettolitri per ettaro, mentre nell’adiacente di Biella si raggiungevano appena 0,54 ettolitri, contro i 5,49 di Asti.

La meliga bianca a Ivrea aveva una resa di 4,23 ettolitri contro i 4,49 di Biella. L’avena rendeva 0,11 nel Biellese, 0,23 nell’Eporediese e appena lo 0,003 nella Provincia di Casale Monferrato. Il riso rendeva 3,97 ettolitri per ettaro nel Biellese, 7,55 nel Vercellese con la punta di 8,84 nel Novarese, le uniche tre provincie in cui c’era la coltura del riso.

Young scriveva nel tragitto da Cigliano a Vercelli: “Le risaie lasciate in abbandono dal quarto anno della rotazione senza lavoro né ingrasso; gerbidi dove grufolano i maiali, le terre a granoturco piene d’erbacce alte due o tre piedi. Triste paese noioso e malsano: il cadavere di un ladro appeso ad un albero è in armonia coll’aspetto cupo e pestilenziale di questa regione piatta e boschiva.”

La situazione della rete irrigua frammentaria e inesistente in parti del Piemonte, determinava una grande varietà di resa per i fieni che ben raramente potevano dare tre tagli all’anno. Ivrea e Acqui rappresentavano le migliore rese del Piemonte per la presenza e la gestione irrigua dell’acqua.

L’agricoltura (e la viticoltura in particolare), conobbe accelerazioni dovute alle ricadute della rivoluzione francese prima e alla politica di Napoleone poi. Molte notizie tecniche giunsero da Francia e Germania e tra il 1805 e il 1809 fiorirono istituzioni scientifiche e varie organizzazioni tecnico-agrarie che supportarono gli agricoltori.

Dopo la spinta “francese” ci pensò Cavour che nel 1840 volle Louis Oudart, matematico ed appassionato viticoltore ed enologo francese a curare il vitigno del castello di Grinzane. Fu così che quel tecnico venne chiamato anche dalla marchesa di Barolo e così fecero altri nobili piemontesi e liguri.

La seconda rivoluzione della viticoltura marciò di pari passo con il Risorgimento e portò a grandi risultati in quantità e qualità malgrado i tre flagelli importati casualmente dagli Stati Uniti d’America: la crittogama o oidio, la fillossera e la peronospora. Molti contadini terrorizzati bruciavano addirittura i vitigni colpiti: Cavour corse allora ai ripari nell’estate del 1851 quando un certo cavalier Abbene inviò al Ministero dell’Agricoltura di Torino un grappolo colpito dall’oidio raccolto in una vigna tra Trofarello e Moncalieri.

Cavour investì del problema l’Accademia di Agricoltura di Torino, diramò circolari in tutto il regno per controllare altri focolai e indicare eventuali rimedi adottati. Il Biellese fu la zona più drammaticamente colpita e si arrivò nel l859 alla II Guerra d’Indipendenza: le avanguardie austriache avevano appena abbandonato Biella e vi giunse Giuseppe Garibaldi con i suoi “Cacciatori delle Alpi” e andò ad installarsi in casa del vescovo Giovanni Pietro Losana, il quale, bisogna ricordare, era cresciuto ed ispirato dalla figura dello zio paterno, Giorgio Matteo parroco di Lombriasco e già professore di teologia all’Università di Torino che era stato incarcerato nella fortezza di Verrua come “giacobino” e poi come giansenista negli anni dell’occupazione napoleonica.

A parte le vicende politiche si era dato con passione all’istruzione dei contadini alle nuove tecniche agricole. Il nipote non fu da meno. Discutendo con Garibaldi del problema delle viti, ottenne la confidenza di utilizzare lo zolfo, rimedio scoperto in Inghilterra dal 1846. Così fece nella sua vigna a Cossato, con ottimi risultati.

Fu proprio l’autorità del vescovo Losana a convincere i superstiziosi contadini della bontà del trattamento e così lo zolfo iniziò a utilizzarsi nel Biellese e nel Canavese, poi nel resto del Piemonte, ma con lentezza: ci vollero infatti 10 anni perché il rimedio fosse adottato capillarmente.