(Editoriale di Maurizio Vicario)

“Ogni persona che incontri lungo la tua strada sta combattendo una dura battaglia, di cui tu non sai nulla: sii comprensivo, sempre”. Non so bene neanche io il perché, ma questa frase dall’attribuzione incerta (come molte di quelle presenti su internet) continua a rimbombarmi in testa da domenica scorsa. Forse perché questa volta le strade sono davvero le mie, le nostre; o perché l’ignota battaglia intima di qualcuno ha lasciato sul campo quattro cadaveri, apparentemente spazzando via ogni possibilità di comprensione.

Rivarolo è una città di 12mila500 anime: un numero sufficiente per consentire a chi vuole nascondersi al mondo e agli altri di farlo, ma comunque troppo piccolo per impedire di sapere ciò che accade. Di bocca in bocca le voci corrono e le orecchie le inseguono veloci: eppure, questa volta, più del passaparola sono stati Tg e siti on-line a svegliare domenica mattina i cittadini con la più inattesa e ferale delle nuove.

Genera sempre un senso di straniamento vedere in televisione, illuminate dai lampeggianti delle gazzelle e affollate di cronisti, le strade della cittadina di provincia in cui sei nato e vissuto. Eppure, anche se ti ci vuole un attimo per metterle a fuoco, quei palazzi, quel viale, quelle insegne che ora fanno da quinta a una tragedia inimmaginabile ti appartengono da sempre e da sempre ti hanno garantito un senso di protezione che ritenevi non scalfibile. Eppure, quelle strade sono proprio le tue: quelle che hai percorso centinaia di volte, chissà quante incrociando i protagonisti di questa vicenda tanto assurda quanto straziante.

Poco si sa dell’autore della strage: un po’ burbero e scostante, lo raccontano i vicini, che mai comunque (come sempre in questi casi) avrebbero sospettato capace di tanto un pensionato reduce da una onesta vita da operaio, concentrato sulle esigenze di una realtà famigliare non semplice e reso dal passare degli anni sempre più solitario e autoritario, in particolare nei confronti della moglie. Entrambi avevano poi certamente il cruccio di Wilson, quel figlio ormai adulto ma completamente incapace di autonomia: a pesare non era certamente l’onere di accudirlo oggi, come avevano fatto con cura e dedizione per 51 anni, ma il pensiero di chi lo avrebbe fatto in loro assenza un domani. Era certamente questo tarlo, quel dubbio sul “dopo di noi” proprio di tutti i genitori anziani di figli disabili, la “dura battaglia” di Renzo e Maria Grazia Tarabella: a combatterla non ha certo aiutato il progressivo isolamento autoimposto dal marito a se stesso e alla moglie. Perché nel silenzio della solitudine il rovello dei pensieri si attorciglia sempre più vorticosamente, chiudendo ogni spazio di luce e precipitando la mente nel buio più oscuro di un sordo e cieco risentimento verso la vita.

C’è poi il non indifferente dettaglio della pistola usata per la strage, regolarmente detenuta e denunciata. Ci si chiede a che cosa essa potesse servire a un modesto pensionato che non pareva avere particolari ragioni di temere per la propria incolumità. Perché alla disponibilità di un’arma consegue necessariamente il più o meno ricorrente pensiero di doverla o poterla prima o poi usare. E il fatto che il porto d’armi del Tarabella risalisse, a quanto si è appreso, a oltre quarant’anni anni fa (poco meno dell’età del figlio) getta un’ombra ancor più sinistra su tutta la storia.

Una storia che sarebbe già stata insopportabilmente tragica se si fosse conclusa con l’autodistruzione di questa sfortunata famiglia, senza includerne un’altra totalmente innocente: quella di Liliana e Osvaldo Dighera, attratti nell’alloggio dall’omicida per mostrare loro lo scempio appena compiuto prima di giustiziarli, come a volere attribuire loro almeno parte della colpa. Eppure ai coniugi Dighera non era ignota la “dura battaglia” dei Tarabella: più che padroni di casa erano rimasti l’ultimo tramite tra loro e il mondo, aiutandoli saltuariamente per quanto potevano con Wilson. La loro gentilezza e comprensione potrebbe paradossalmente essere stata la loro condanna di fronte al sordo e cieco risentimento verso la vita (quella propria, avvertita infelice e ingiusta, nel raffronto con quella dei vicini) montato nell’animo di Renzo Tarabella sino all’esplosione finale: una sorta di “muoia Sansone con tutti i Filistei”, un modo per trascinare nell’abisso oscuro in cui aveva deciso di lasciarsi cadere le uniche e ultime persone in grado di proiettarvi un residuo di luce.

Che tanta disperazione, e di così tanto capace, si annidasse in quell’appartamento di quel palazzo affacciato su queste nostre strade è cosa che toglie il fiato. Non giustificabile ma prevedibile è che alla non lucida follia dell’omicida si sommi quella di certi commenti (incluso il cortocircuito mentale della richiesta pena di morte per un uomo che ha tentato di suicidarsi) frettolosamente esternati sui social e nei crocchi in città. Forse davvero la via migliore da percorrere è quella invocata dallo stesso sindaco Alberto Rostagno e dal parroco don Raffaele Roffino: il silenzio.

Se ci permettiamo di derogare alla consegna, oltre che per il (mai triste come in questo caso) dovere di cronaca, è per rivolgere un pensiero di sincero affetto e infinita stima a una giovane donna cui è toccata una prova terrificante: Francesca Dighera, già apprezzata e attenta collega giornalista ed oggi altrettanto apprezzata insegnante, come la mamma. Reduce dalla notte più devastante che si possa immaginare e interrogata a caldo dai cronisti sull’accaduto, è riuscita a non pronunciare una singola parola di rabbia o di odio. “In questo momento vorrei solo potermi chiudere in una stanza e urlare – ha dichiarato –. Invece dovrò metter su la faccia migliore che ho e andare da mia figlia Caterina a spiegarle che i nonni cui è così legata non ci sono più. Non so proprio come farò…”.

Non lo sappiamo neanche noi, Francesca, ma sappiamo per certo che ce la farai. Siamo certi che Caterina capirà, crescendo nel ricordo di nonno Osvaldo che portava a spasso lei come aveva fatto con Wilson e nell’affetto che centinaia di giovani rivarolesi porteranno sempre nel cuore per l’indimenticabile maestra Liliana. Ma è soprattutto guardando te – che i tuoi genitori sono riusciti a crescere così bene, senza sbagliare davvero nulla – che Caterina capirà che i suoi nonni hanno combattuto (e vinto, anche se oggi tutto sembra dire l’opposto) la loro giusta battaglia. E ti aiuterà d’ora in poi a non disperare mai nel combattere la tua, che – stavolta possiamo immaginarlo tutti – sarà certo durissima.