Il Governo Meloni ha un problema serio con Bruxelles: da un lato cerca un costruttivo rapporto istituzionale con l’Esecutivo di Ursula von der Leyen, dall’altro si muove politicamente, in vista delle elezioni Europee 2024, per abbattere proprio la “maggioranza Ursula” (popolari, liberali, socialisti e democratici) e sostituirla con una coalizione di centro-destra con popolari e conservatori. Una linea del doppio binario, rilanciata da Berlusconi, mentre permane freddo Salvini, legato all’estrema destra di Marine Le Pen e contrario alle intese con i popolari.

In altre parole l’Italia si muove per sostituire le larghe intese costruite dalla Merkel e da Macron, ma il fronte d’appoggio è alquanto eterogeneo: lo stesso patto di Visegrad (che riunisce i nazionalisti di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) è profondamente diviso sull’Ucraina, con Varsavia schierata decisamente con Zelensky e Budapest con Putin. Ma la sfida vera è lanciata all’asse Parigi-Berlino che regge da decenni il cammino dell’UE: come sostituire questo equilibrio senza precipitare nell’anarchia di 27 nazionalismi?

Nell’immediato, tuttavia, il Governo ha bisogno di “comprensione” dai suoi prossimi “avversari” su alcuni dossier essenziali. In primis la gestione del fondi europei (circa 200 miliardi del PNRR): è ormai chiaro che l’Italia non può spendere tutte queste risorse entro il 2026; necessita di dilazioni o di cambio di progetti, con una delicata trattativa tra il ministro Fitto e i vertici di Bruxelles. Il rischio è una perdita di contributi: sarebbe una sconfitta per tutti gli Esecutivi coinvolti nel PNRR, da Conte alla Meloni passando per Draghi; soprattutto una secca caduta per l’economia italiana.

C’è poi la questione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), che vede Roma sotto accusa perché è l’unica capitale a non aver ancora ratificato il trattato, con il risultato della sua paralisi. Soprattutto emerge il nodo dell’immigrazione: dagli accordi con la Tunisia alla suddivisione dei migranti, Roma chiede giustamente di non restare sola: conta sul sostegno di Ursula von der Leyen, ma occorre il sì anche dei paesi euroscettici come l’Ungheria di Orban. Altrimenti tutto resta fermo, con disagi e drammi crescenti per migliaia e migliaia di persone.

Negli anni Sessanta, in una situazione politica difficile, Aldo Moro s’inventò le “convergenze parallele” per uscire dall’impasse; Giorgia Meloni dovrà compiere un’impresa analoga per reggere il “doppio binario” senza danni per il Paese. Alcuni commentatori già mettono in guardia da possibili tentativi di cercare il capro espiatorio, vedendo uno scenario analogo nella vicenda del ridimensionamento dei poteri della Corte dei Conti (su cui, peraltro, ancora una volta l’opposizione si è divisa: contrari Pd e M5S, favorevole il leader del Terzo Polo, Calenda).

Il Governo Meloni, in politica interna, ha infine completato il controllo della Rai con la nomina di direttori graditi al TG1, TG2, TGR, Radio, Rai News 24; all’opposizione resta il TG3. Va poi considerato, nelle reti generaliste, il peso “governativo” delle tre reti Mediaset della famiglia Berluscon. È pur vero che la lottizzazione non nasce oggi, ma c’è una misura in tutte le cose. Nel ’76, l’anno della “rivoluzione” Tv dopo l’era Bernabei, le testate tv e radio furono ripartite equamente tra i partiti maggiori: Dc, Pci, Psi (nella convinzione di Moro, De Martino, Berlinguer che il servizio pubblico non potesse essere gestito in una logica monocolore, pur in un’azienda di Stato governata dal Parlamento).

Si apre una delicata questione sul pluralismo informativo e culturale, che non riguarda soltanto i partiti, ma l’intera società civile (il rapporto tra informazione e pubblicità, la tutela dei minori, il rispetto di tutte le culture, l’affermazione di una concezione laica dello Stato che non escluda la dimensione religiosa…). Su questo delicato versante della vita civile la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai non dovrebbe limitarsi a controllare quanti minuti vengono assegnati ai leader, ma soprattutto quanta attenzione sia dedicata alla vera dimensione del servizio pubblico, senza egemonie di nessun tipo.

Il nuovo direttore generale della Rai, Rossi, ha intanto esordito proponendo una fiction su Gabriele D’Annunzio, il vate del nazionalismo. Non sembra un grande inizio; soprattutto conferma una linea politica che premia la maggioranza; ma i telespettatori, compresi gli astenuti dal voto, sono una realtà molto più larga (che paga il canone).