Due firme prestigiose del “Corriere della Sera”, Aldo Cazzullo e Antonio Polito, hanno lanciato un forte allarme sulla crisi della democrazia in Italia, rilevando un distacco senza precedenti tra l’opinione pubblica e la politica. La conferma viene non solo dal fallimento dei referendum (con un astensionismo balzato al 70%), ma anche dell’assenza di un dibattito vero nei partiti, nonostante la gravità delle questioni aperte, a cominciare dalle guerre.

Prevalgono i leader, da Meloni a Salvini, dalla Schlein a Conte, ma le assemblee di partito sono sempre più rare, nonostante il ruolo centrale che la Costituzione assegna alle forze politiche. Nenni diceva: “piazze piene, urne vuote”; oggi c’è ressa nei salotti televisivi (mediamente due-tre milioni di spettatori), ma ai seggi va una minoranza dei 50 milioni di elettori.

La riforma maggioritaria della seconda Repubblica ha favorito il bipolarismo “secco” destra-sinistra, ha creato il liberismo di Governatori e Sindaci eletti subito, ma parecchi presidenti o primi cittadini sono stati votati da una minoranza della popolazione.

Sul piano nazionale la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha assunto posizioni importanti sui rapporti con Trump, sulle guerre, sui dazi, ma da Fratelli d’Italia giungono solo notizie di consenso “scontato”. Perché non interrogarsi sui limiti del nazionalismo di fronte alla prepotenza di Trump, sulla coesistenza in maggioranza con un partito come la Lega che sta apertamente con Putin e Netanyahu, sui danni gravi per l’economia italiana dalla politica dei dazi?

I due vice-premier Tajani e Salvini continuano a litigare su tutto, da ultimo sul tema delicatissimo (e di civiltà) dello “jus scholae” che riguarda centinaia di migliaia di immigrati. Perché, per un principio di serietà politica, non presentare una proposta di legge “urgente” in Parlamento, passando dalle parole ai fatti? La discussione dura ormai da due anni: le persone interessate al provvedimento meriterebbero maggior rispetto.

Nel “campo largo” (da cui si è sfilato Calenda con Azione), la Schlein (che insegue Palazzo Chigi nel 2027) ha praticamente messo il silenziatore al dibattito interno al Pd, delegando la questione sociale alla Cgil di Landini (e rompendo con la Cisl), i temi etici alla linea radicale di Cappato, la politica estera ad un prudente riserbo tra la tradizione Atlantica dem e la scelta neutralista del M5S di Conte (presente, con il governo di destra-centro, alla festa nazionale statunitense del 4 luglio). Sorprende, in un partito da sempre dialettico, il sostanziale riserbo dell’area riformista, sull’abbandono della Cisl che fu di Pastore e Donat-Cattin, sul ddl sul fine-vita con la richiesta radicale del “suicidio assistito”, sulla politica estera lontana dalla linea Mattarella, soprattutto sull’Ucraina.

Per l’autunno, dall’area riformista, si annuncia un’iniziativa del professor Edoardo Maria Ruffini: una nuova corrente nel Pd, la rinascita della Margherita o semplicemente un nuovo “tavolo” di confronto?

Nei prossimi mesi andranno poi al voto sei Regioni: Campania, Marche, Puglia, Toscana, Veneto, Valle d’Aosta. Per ora si parla molto dei candidati-Presidenti, con il leghista Zaia (Veneto) e il campano dem De Luca che insistono per candidarsi al terzo mandato (escluso dalla legge), minacciando liste autonome. Per le altre regioni il “campo largo” ha escluso le “primarie” (inventate da Prodi e Parisi nella stagione vincente dell’Ulivo), perché i pentastellati di Conte intendono determinare le leadership, a cominciare dalla Campania. Dei programmi per ora non se ne parla, le pagine dei media sono tutte dedicate ai candidati-leader.

Questo clima “personalistico” non incoraggia la partecipazione alla politica dei cittadini, che è invece essenziale per le istituzioni democratiche, come sollecita sempre il Capo dello Stato. Occorre ripartire dalla priorità dei programmi e dalla coerenza delle alleanze politiche, evitando “ammucchiate” per governare, a destra e a sinistra.

L’elettore attende parole chiare, dalla politica estera ai temi etici, dall’economia alla giustizia. Altrimenti la piaga dell’astensionismo è destinata ad allargarsi, con una democrazia di minoranza, come nello Stato liberale dell’Ottocento.