La Parola del Deuteronomio (“Una parola molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”) ci mette sulla giusta frequenza per ascoltare le parole di Gesù nel Vangelo. È l’evangelista Luca che propone questa parabola (nota come del buon Samaritano) nella prima tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme.

Teniamo conto del contesto geografico: da Gerusalemme a Gerico ci sono 27 chilometri e 1100 mt di dislivello; la strada passa per l’inospitale deserto di Giuda con burroni e curve dove sono facili le imboscate. In una di queste cade un viandante e i briganti lo abbandonano ferito. Gerico è città sacerdotale. Il levita e il sacerdote sono diretti verso quella città e lasciano il malcapitato nello stato di abbandono.

Occorrerà aspettare un samaritano, un disprezzato dagli Ebrei, per quell’antica rivalità che intercorre tra i Giudei e i samaritani, per trovare chi si fa vicino al malcapitato. Da costui abbiamo un grande insegnamento sulle azioni che ci rendono prossimi, che ci interpella su come ci facciamo prossimi di coloro che incontriamo: lo vide, ebbe compassione, si avvicinò, lo bendò, guarì le sue ferite, lo caricò, lo portò a una locanda, si prese cura di lui, pagò per lui e promise di tornare. Non solo i lontani, ma anche i nostri vicini di casa, i familiari… sono i nostri prossimi.

Gesù racconta la parabola dopo che il dottore della Legge si è “giustificato” del perché della sua domanda iniziale: “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Tra l’altro, nella tradizione giudeo-cristiana, il termine “giustificare” non ha la stessa accezione che ha nel nostro parlare comune. Non significa, infatti, dare le motivazioni del “perché” di certe nostre azioni o comportamenti, bensì “fare giusti”, “rendere o rendersi giusti di fronte a Dio”. In parole povere, “giustificarsi” significa “avere la salvezza”, o – come dice il dottore della Legge a Gesù – “ereditare la vita eterna”.

Combinando i due significati del “giustificarsi” (essere salvato e dare le motivazioni di ciò che si fa) ne esce qualcosa di relativo alla nostra fede che è sempre molto attuale, e che fa parte dei significati di questa parabola: ossia, la nostra fatica (o addirittura la mancanza di volontà) nel farci prossimi ai nostri fratelli che si trovano nella necessità, “giustificata” dai nostri molti altri impegni presi con il Signore o dalla nostra presunta fedeltà ai suoi comandamenti.

La nostra tipica risposta è : “non posso perché ho qualcosa di più importante da fare”. È brutto doverlo ammettere, ma spesso è così: giustifichiamo certi nostri comportamenti e soprattutto certe nostre omissioni con modi di ragionare e anche con frasi mutuate dalla nostra presunta fede, ma che di fede hanno ben poco. E sono atteggiamenti in cui tutti quanti cadiamo, a volte anche in maniera inconsapevole.

Dietro a tutto questo si può nascondere un atteggiamento ancor più pericoloso: quello di pensare di poterci “autogiustificare”, che significa, da una parte, trovare delle scuse sempre plausibili e valide, anche se magari non lo sono affatto, e dall’altra addirittura pensare di poterci “giustificare da soli”, ovvero salvarci attraverso i nostri soli mezzi, senza la necessità della grazia di Dio.

E forse questo è proprio quello che Gesù voleva cercare di far comprendere al dottore della Legge, il quale non si avvicina a Gesù con il desiderio di arricchire la propria vita spirituale, già così intensa, bensì “per metterlo alla prova”, cioè per sfidare Dio: vediamo chi dei due la sa più lunga riguardo alla vita eterna.

È per “giustificarsi”, per “salvarsi da solo” che incalza Gesù e gli chiede di essere più chiaro riguardo al prossimo. Ma Gesù non si fa intimidire: lo rimanda alla Legge, quello strumento di cui lo scriba era Maestro in Israele e che, a detta sua, poteva dargli la salvezza, la giustificazione, senza bisogno di chiedere a Dio di salvarlo. E infatti, i comandamenti sono chiari: amore a Dio e amore al prossimo, inscindibili. Qui sta la salvezza.

Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».