(Mario Berardi)

A Roma, nell’attesa del voto referendario e amministrativo di domenica, il Governo Draghi ha spento temporaneamente le luci della ribalta per non essere coinvolto negli scontri della sua rissosa maggioranza.

A Parigi il presidente Macron, per non divenire “un’anatra zoppa”, si è spostato a sinistra in vista del voto legislativo, nel tentativo di arginare l’avanzata della lista “antagonista” dell’ex socialista Mélenchon. Le due capitali europee soffrono entrambe di instabilità politica, pur in contesti differenti.

A dieci mesi dalle elezioni politiche i rapporti tra Lega e Pd sono ai minimi, su tutti i problemi, dalla politica estera alle questioni sociali: questo rende sempre più difficile la mediazione del premier, con la conseguente stasi nell’azione di governo. A ciò si aggiunga la crisi inarrestabile del M5S, dilaniato tra Di Maio e Conte, con l’ex premier tentato dalla spallata al Governo nel dibattito del prossimo 21 giugno alle Camere sulla guerra. I Centristi con Calenda e Renzi assicurano che non succederà nulla, ma intanto aggiungono altra legna al fuoco governativo, annunciando un referendum per abolire il Reddito di cittadinanza, ovvero il provvedimento-cardine del Governo “sovranista” di Conte con la Lega. Altre divisioni si registrano sul salario minimo: favorevole, dopo il sì di Bruxelles, il centro-sinistra, contrario il centro-destra (e la Confindustria).

La cornice istituzionale delineata nell’emergenza dal Presidente Mattarella appare sempre più fragile, ma non emerge all’orizzonte un’alternativa, mentre la crisi sociale si fa più aspra e il “famigerato” spread torna a salire sopra i 200 punti di differenziale rispetto ai Bond tedeschi.

Le stesse elezioni amministrative segnano il disarmo delle coalizioni: la Meloni punta a superare Salvini nel voto del Nord per rivendicare la guida del centro-destra, mentre Letta non è riuscito a mettere insieme il “campo largo” del centro-sinistra, perché Conte, Renzi, Calenda si auto-escludono e i Centristi a Genova e Verona sono in lista contro i candidati Pd-M5S!

Nelle urne i rischi maggiori riguardano gli ex alleati Salvini e Conte: il leader della Lega potrebbe “pagare” il probabile fallimento del referendum sulla giustizia e le iniziative autonome con Mosca; l’ex premier la sterzata a sinistra del Movimento in funzione anti-Draghi.

Il quadro confuso del voto amministrativo e referendario (sulla Giustizia lo scontro nel centro-destra tra la Meloni e l’asse Salvini-Berlusconi è davanti agli occhi di tutti) potrebbe tuttavia prefigurare gli scenari delle politiche di primavera. La Meloni, che oggi i sondaggi danno in testa nel gradimento, secondo alcuni Media potrebbe correre da sola, nonostante il sistema elettorale parzialmente maggioritario. A sua volta Letta potrebbe essere costretto a una duplice alleanza: al Sud con i Grillini, al Nord con i Centristi. Ne deriverebbe un Parlamento senza maggioranza, con il Capo dello Stato “costretto” a ricercare, per il bene del Paese, nuove formule di unità nazionale. Già i Centristi hanno riproposto un nuovo Governo Draghi, con Pd e Forza Italia. Ma ci sarebbero i numeri nelle due Camere?

L’auspicio, dopo il voto di domenica, è il recupero di una dimensione costruttiva da parte delle forze politiche, evitando che l’Esecutivo Draghi si trasformi in un “governo balneare”, con una doverosa priorità alla ricerca delle vie della pace per il conflitto in Ucraina scatenato dalla Russia, e all’assunzione di nuove misure economiche contro l’inflazione, i bassi salari, le nuove povertà. Un Governo debole, con Bruxelles o con Mosca, non è nell’interesse del Paese, con una guerra insensata che si preannuncia ancora lunga e con un PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che non consente pause nell’utilizzo dei fondi europei, anche per contrastare la caduta del prodotto interno lordo.

La temuta disaffezione delle urne (fatto molto negativo per le istituzioni democratiche) esige una risposta costruttiva da parte del Governo, delle forze politiche e sociali, consapevoli del momento eccezionale dell’Europa (e dell’Italia). Se i partiti non hanno oggi alternative alla proposta istituzionale avanzata 16 mesi fa da Mattarella, perché continuare a logorarla con un clima sempre elettoralistico? A chi giova?