Qualche giorno di vacanza con ascensione al Col di Lana in Veneto, a pochi chilometri dal confine trentino. Una lunga salita ai 2500 metri tra panorami fantastici.
Dopo il Panettone e il Cappello di Napoleone attacchiamo la salita finale. Incontriamo la caverna scavata dagli italiani, scendiamo nel cunicolo. La sensazione è di morte. Torniamo alla luce del sole e arriviamo alla cappella di legno eretta sull’orlo del cratere dell’esplosione che dissolse 160 austriaci in un istante. Mangiamo nel bivacco li appresso. Non viene nemmeno voglia di parlare. Un tricolore sventola tirato dal vento. Le croci e cippi la fanno da padroni. Nel cratere dopo 102 anni non è ricresciuta neppure l’erba.

Riprendiamo una via ferrata ed entriamo in quello che fu il mondo del “nemico”: trincee in cresta e tante gallerie e stanze gelide ricavate dentro la montagna. Lì dentro freddo e umidità sono atroci anche in estate. Poi il Sief, mezzo distrutto, in cresta, da una mina difensiva austriaca da 40 tonnellate di tritolo che ha spaccato la montagna proiettando sassi nel fondovalle.
A fine giornata in poche ore percorriamo una montagna e tre punte di cresta aspramente contese per tanti mesi. Non si capisce quasi più il senso di questa macelleria d’alta quota.

A Favria invece c’è un buco nero inquietante come la galleria di mina del Col di Lana. Se l’accusa dovesse mai essere dimostrata dal giudizio, allora il segnale non sarebbe più un segnale, ma una realtà pesante come la croce di ferro che svetta sul Col di Lana. Politica e sindacato uniti in un abbraccio mortale per riciclare danaro. Sarebbe davvero grossa come il cratere della mina del Col di Lana, su cui non cresce ancora l’erba.

Fabrizio Dassano